lunedì 30 ottobre 2017

J. G. Ballard

In un grattacielo smisurato e proiettato tanto nel cielo quanto nel futuro, i rapporti tra i condomini regrediscono fino a tornare alle esigenze primordiali della sopravvivenza: aggressività, autodifesa, caccia all’uomo. Lo sviluppo è lineare almeno quanto la struttura verticale del grattacielo, “un’immensa macchina progettata per servire non la collettività degli inquilini, ma il residente individuale e isolato”. Metafora di tutta la nostra vita quotidiana, straordinaria visione di un futuro che è già presente, nel condominio di J. G. Ballard le classi sociali sono divise dai piani e dagli ascensori, ma ad un certo punto tutto ciò che dovrebbe essere garantire l’individualità e la privacy nella vita comune diventa un territorio di scontri brutali, che nascono dalle esigenze più elementari: la tutela del territorio e dei piccoli, la fame e altri appetiti (quelli sessuali, principalmente), la sopravvivenza tout court. La riduzione del tessuto sociale ai limiti dell’animalesco non è tutto, perché l’ombra del condominio svela l’ipocrisia, l’indifferenza, l’abulia visto “nonostante l’angoscia per le crescenti violenze, nessuno si sorprendeva di tali accadimenti. La routine della vita continuava come prima, si andava al supermarket, allo spaccio di liquori e dal parrucchiere. In qualche modo il grattacielo era in grado di conciliare quella duplice logica. Il tono di voce dei suoi vicini, mentre descrivevano quelle esplosioni di ostilità, era tranquillo e pratico, come se fossero dei civili in una città dilaniata dalla guerra, e avessero a che fare con l’ennesima incursione aerea”. Il condominio, con la sua brutale architettura di quaranta piani per mille appartamenti è verticale verso l’alto ed è anche un precipizio. Diventa un incubo claustrofobico, teso e snervante che introduce il lettore in un’atmosfera ambigua e inquietante perché il caos del condominio è il nostro (nuovo) ordine quotidiano, uno stillicidio di violenze piccole e grandi di cui, proprio come gli inquilini di J. G. Ballard, non riusciamo a tener conto. La “sfida alla realtà delle cose” è tutta dell’avvicinarsi ala cronaca quotidiana. Mentre Il condominio, con il progredire della storia, comincia una vita tutta sua e diventa un soggetto indipendente, lo specifico tipo di violenza che pervade i suoi abitanti è qualcosa di inedito e incontrollabile. Lo spunto, polemico se si vuole, del condominio è proprio lì, più che nella cupissima trama: è l’incapacità di vedere quello che ormai non si può più nascondere, è la forza dell’abitudine che impedisce di fiutare il peggio, è la stratificazione (sociale, politica, umana) che ad un certo punto, questione di tempo, collassa. Nell’intimo, nelle soggettività più che nella collettività, come fa notare Ballard, senza ipocrisie: “E’ un errore pensare che stiamo tutti spostandoci verso uno stato felice di primitivismo. Qui il modello non sembra essere il buon selvaggio, piuttosto, direi, il nostro sé post-freudiano e nient’affatto innocente, violentato da un’educazione all’evacuazione troppo indulgente, dalla devozione per il nutrimento al seno e dall’amore genitoriale... Una miscela ovviamente più pericolosa di qualsiasi cosa abbiano dovuto sopportare i nostri antenati vittoriani”. Il condominio è un grande romanzo perché racconta, da dentro, dall’intestino, le ultime metamorfosi di una civiltà decadente, la nostra, e di un’umanità che, nonostante l’evoluzione della specie, è ferma ai suoi istinti animaleschi. Attualissimo, e sempre sorprendente, è l’istantanea di un futuro già esaurito.

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