In un
grattacielo smisurato e proiettato tanto nel cielo quanto nel futuro,
i rapporti tra i condomini regrediscono fino a tornare alle esigenze
primordiali della sopravvivenza: aggressività, autodifesa, caccia
all’uomo. Lo sviluppo è lineare almeno quanto la struttura
verticale del grattacielo, “un’immensa macchina progettata per
servire non la collettività degli inquilini, ma il residente
individuale e isolato”. Metafora di tutta la nostra vita
quotidiana, straordinaria visione di un futuro che è già presente,
nel condominio di J. G. Ballard le classi sociali sono divise dai
piani e dagli ascensori, ma ad un certo punto tutto ciò che dovrebbe
essere garantire l’individualità e la privacy nella vita comune
diventa un territorio di scontri brutali, che nascono dalle esigenze
più elementari: la tutela del territorio e dei piccoli, la fame e
altri appetiti (quelli sessuali, principalmente), la sopravvivenza
tout court. La riduzione del tessuto sociale ai limiti
dell’animalesco non è tutto, perché l’ombra del condominio
svela l’ipocrisia, l’indifferenza, l’abulia visto “nonostante
l’angoscia per le crescenti violenze, nessuno si sorprendeva di
tali accadimenti. La routine della vita continuava come prima, si
andava al supermarket, allo spaccio di liquori e dal parrucchiere. In
qualche modo il grattacielo era in grado di conciliare quella duplice
logica. Il tono di voce dei suoi vicini, mentre descrivevano quelle
esplosioni di ostilità, era tranquillo e pratico, come se fossero
dei civili in una città dilaniata dalla guerra, e avessero a che
fare con l’ennesima incursione aerea”. Il
condominio, con la sua brutale architettura
di quaranta piani per mille appartamenti è verticale verso l’alto
ed è anche un precipizio. Diventa un incubo claustrofobico, teso e
snervante che introduce il lettore in un’atmosfera ambigua e
inquietante perché il caos del condominio è il nostro (nuovo)
ordine quotidiano, uno stillicidio di violenze piccole e grandi di
cui, proprio come gli inquilini di J. G. Ballard, non riusciamo a
tener conto. La “sfida alla realtà delle cose” è tutta
dell’avvicinarsi ala cronaca quotidiana. Mentre Il
condominio, con il progredire della storia,
comincia una vita tutta sua e diventa un soggetto indipendente, lo
specifico tipo di violenza che pervade i suoi abitanti è qualcosa di
inedito e incontrollabile. Lo spunto, polemico se si vuole, del
condominio è proprio lì, più che nella cupissima trama: è
l’incapacità di vedere quello che ormai non si può più
nascondere, è la forza dell’abitudine che impedisce di fiutare il
peggio, è la stratificazione (sociale, politica, umana) che ad un
certo punto, questione di tempo, collassa. Nell’intimo, nelle
soggettività più che nella collettività, come fa notare Ballard,
senza ipocrisie: “E’ un errore pensare che stiamo tutti
spostandoci verso uno stato felice di primitivismo. Qui il modello
non sembra essere il buon selvaggio, piuttosto, direi, il nostro sé
post-freudiano e nient’affatto innocente, violentato da
un’educazione all’evacuazione troppo indulgente, dalla devozione
per il nutrimento al seno e dall’amore genitoriale... Una miscela
ovviamente più pericolosa di qualsiasi cosa abbiano dovuto sopportare
i nostri antenati vittoriani”. Il condominio
è un grande romanzo perché racconta, da dentro, dall’intestino,
le ultime metamorfosi di una civiltà decadente, la nostra, e di
un’umanità che, nonostante l’evoluzione della specie, è ferma
ai suoi istinti animaleschi. Attualissimo, e sempre sorprendente, è
l’istantanea di un futuro già esaurito.
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