venerdì 20 ottobre 2017

Jonathan Coe

Attraverso una vecchia scatola di nastri e fotografie prende forma l’identità forma tre, quattro generazioni di donne le cui esistenze, nonché i destini, si incrociano con tutti i loro amori, stili, ideali e fallimenti, visto che “non c’è niente che si possa dire, immagino, di una felicità perfetta, impeccabile e senza ombre; niente, salvo la certezza che dovrà finire”. La pioggia prima che cada inizia come un romando di Ian McEwan, Martin Amis e Graham Swift, i fratelli maggiori: la stessa cura della geometria e della geografia, il ritmo soppesato battuta per battuta, un calore che s’insinua senza esitazioni attraverso le parole, un tono drammatico e nello stesso tempo molto cauto nel sottolineare gli eventi e un grande rispetto, quasi un timore reverenziale, verso i personaggi. Ben presto si capisce perché: il puzzle che si forma nelle fotografie, la cui descrizione è l’intima essenza di La pioggia prima che cada, è molto labile, come lo sarebbe in realtà, anche perché il rapporto tra immagine (soprattutto la fotografia, che fra tutte le arti visive è la più istintiva) e scrittura porta in un campo complesso (se non proprio pericoloso). Tra le righe del romanzo, ad un certo punto lo afferma con un certo candore anche Jonathan Coe: “Una fotografia è ben poca cosa. Può catturare soltanto un momento, tra milioni di momenti, nella vita di una persona o di una casa” ed è, come dice più avanti, una realtà ingannevole, dove un sorriso (si sorride sempre in una fotografia) è sempre falso. Forse è per quello che, fotografia dopo fotografia, le prime parti di La pioggia prima che cada sembrano effettivamente un po’ nebulose, come se l’immagine fosse sfocata. E’ anche la prudenza con cui Jonathan Coe allinea i personaggi, lentamente, con scrupolo fino a creare un intero universo femminile. Bisogna arrivarci, ben dentro, per vedere la luce che le illumina per intero perché il mosaico di immagini compone un quadro che ha come protagonista la famiglia, o la sua mancanza. In entrambi i casi, comunque, come dice con una certa precisione, Jonathan Coe, spogliando il termine di tutta l'enfasi posticcia che gli viene attribuita, la famiglia è vista semplicemente come “una delle nostre condizioni di vita”. E’ allora che il titolo dà un senso al romanzo, lo apre, lo spiega, accende una fuoco d’artificio sopra le fotografie e sopra i nastri illuminandole anche dove sono un po’ sbiadite e rendendo infine uniforme e comprensibile il patchwork di ricordi, sentimenti, sogni, vite vissute e non. Fin quando non è accettato il sostanziale paradosso che “la vita comincia ad avere senso solo quando ti rendi conto che a volte, spesso, continuamente, due idee del tutto contraddittorie possono essere egualmente vere”. La pioggia prima che cada è qualcosa in più di un titolo, quindi, il cui compito è anche quello di spiegare l’anima della storia (forse di tutte le storie) contenuta tutta in quella frase, molto pertinente, dove Jonathan Coe sostiene che “qualcosa può farti felice, anche se non è reale”. Un romanzo lirico e bellissimo e bye bye ai fratelli maggiori. 

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