sabato 21 ottobre 2017

Carlos Franz

C’è “un giudice a Berlino” che apre pagine dolorose, e trova giustizia nella scrittura, come se la narrazione, il tentativo di interpretare una storia, la storia, fosse la condanna definitiva. Legge e giustizia nello schema mortale di una dittatura (il Cile nel 1973, ma vale sempre) sono sinonimo di pericolo e tortura e un giudice nella sua posizione risulta essere soltanto ambiguo. Laura è un giudice che durante il colpo di stato cileno del 1973 si trova a fronteggiare le nuove imposizioni della legge voluta dall’esercito. Deve applicare la legge, la deve rispettare, anche se è palese che gli viene imposta e che non è per nulla condivisa e che, ancora meno, dipende dalla giustizia. Lo “stato di guerra interna”, come l’hanno chiamato i generali, giustifica la sospensione del diritto e della sua interpretazione e Laura, questo il nome del giovane giudice, che si trova sull’orlo del baratro, capisce che “lo stato totalitario non è quello dove non c’è legge, ma quello dove non c’è altro che legge e nessun perché”. Il dilemma tra l’amministrazione della giustizia dello stato e la verità diventa un abisso in cui precipita fino a pagarne le estreme conseguenze: “Stiamo diventando poco alla volta un paese fantasma, presagendolo e ormai anelandolo. Quando arriverà il nostro turno per la rottamazione, si tratterà di una semplice ridondanza: un silenzio identico a quello delle nostre voci solitarie che predicano nel deserto”. Lei stessa si ritroverà a non sapere domandare niente al suo aguzzino e a dover rispondere alla figlia, anni e anni dopo, perché “i figli ci fanno il favore di rieducarci al dubbio e al dissenso”. La figlia, Claudia, chiede alla madre perché la legge non è stata giustizia, perché la giustizia non ha servito la verità, perché la verità è rimasta sepolta nel deserto, bruciata dal sole e corrosa dal sale. La madre risponde scavando nella memoria, lottando con ricordi che non vorrebbe più rileggere (figurarsi scrivere) e cercando di assemblare frammenti di una storia che l’ha vista vittima, carnefice, complice. C’è qualcosa nel fiume di parole tra madre e figlia di indicibile (di inaspettato) che appartiene al risvolto più oscuro della trama. Il ritrovarsi, alla fine, nel deserto per le due donne rappresenta la soluzione del conflitto a distanza, ma fino allora il racconto è una fisarmonica, una forma di respiro che alterna ricordi e colloquio epistolare che insieme fanno “la volontà di sapere quello che non si può sapere, di spiegare l’inspiegabile. Sapere e spiegare, per esempio, la normalità che aveva circondato la perversione. Non che la perversione fosse divenuta normale, ciò sarebbe stata cattiva memoria o pessima letteratura, bensì spiegare e sapere che le vite normali avevano seguito il loro corso normale mentre accadeva lo straordinario”. Tra magie e fantasmi, miraggi e destini, l’assedio del deserto all’utopia e la resistenza di due donne legate da un mistero si celebra in quello che Carlos Fuentes ha definito un romanzo “il destino individuale e quello collettivo: con sguardo lucido, distaccato eppure appassionato, Carlos Franz osa scrutare nei melodrammi di queste vite elevandoli a tragedia di una nazione”. Non si potrebbe dire meglio.

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