A prima vista queste note dal nostro secolo sono una variopinta raccolta di saggi, discorsi, frammenti di incontri, scambi epistolari. Le citazioni in ordine sparso (Seamus Heaney, Salman Rushdie, Boris Pasternak, Claudio Magris), i ritratti di Joseph Roth e Günter Grass, il carteggio con Kenzaburō Ōe, la seconda parte dedicata all’apartheid, a Nelson Mandela e più in generale al Sud Africa coabitano apparentemente in virtù dell’eclettismo di Nadine Gordimer. In realtà, più da vicino, Vivere nella speranza e nella storia è un compatto e complesso richiamo perché secondo l’autrice “la narrativa ha responsabilità precise” e la sua moralità “consiste nel prendersi la libertà di esplorare ed esaminare con impavida onestà la morale contemporanea, compresi sistemi morali quali le religioni”. Certe urgenze potranno apparire retoriche o didascaliche o, diciamo la verità, persino noiose, ma a costo di essere ripetitiva Nadine Gordimer pesta con decisione sullo stesso chiodo e rimette in discussione il ruolo dello scrittore che “non ha ragione d’essere se per lui la realtà rimane al di fuori del linguaggio. Una corrispondenza esatta e vitale tra ciò che è e il modo in cui egli lo percepisce è l’obiettivo che lo scrittore di narrativa deve perseguire, trovando il vero significato delle parole per esprimere lo stato delle cose, sbarazzandosi dei concetti triti e ritriti contrabbandati nel linguaggio della politica”. Diventa allora chiaro che le diverse voci convocate in queste pagine di Nadine Gordimer si completano nel sostenere il suo perentorio, accorato appello: “Noi abbiamo la libertà di scrivere, e siamo pienamente consapevoli che si tratta di una condizione che dobbiamo essere sempre pronti a difendere contro tutte le razionalizzazioni politiche e tutti gli appelli ad alterare la nostra ricerca della verità trasformandola in qualcosa di più gradito a chi fa compromessi di potere”. È più facile darla per scontata o non parlarne affatto, ma non gioverebbe alla “speranza”, così come non ha aiutato la “storia”. D’altra parte, come le risponde Kenzaburō Ōe in una missiva “uno scrittore passa la vita a scrive una storia in cui è racchiusa tutta la sua esistenza”. Per Nadine Gordimer significa confrontarsi con la vita del Sudafrica e, di conseguenza, con l’apartheid. Le prime riflessioni qui riportante risalgono al 1959 e l’accompagnano fino al Nobel, cosciente che per eliminare dal vocabolario quell’orribile parola e i terrificanti meccanismi a cui conduceva era necessario “uno degli eventi straordinari nella storia della società mondiale: il completo rovesciamento di tutto ciò che per secoli ha regolato la vita di tutto il nostro popolo, guidato dalle incarnazioni del razzismo che si sono via via susseguite a livello governativo (conquista, colonialismo, repubblicanesimo bianco), ripetutamente culminate nella violenza”. Nadine Gordimer non nasconde che la dissoluzione dell’apartheid e le prime elezioni democratiche aperte a tutti nel 1994 (toccante il racconto della giornata elettorale in La prima volta) sono stati soltanto accenni verso un possibile futuro, su cui grava la mancanza di una “giustizia materiale”. La definizione (lucidissima) è proprio di Nadine Gordimer ed è frutto di una visione del ruolo dello scrittore che “può servire l’umanità nella misura in cui usa la parola persino contro coloro di cui condivide le posizioni politiche; solo se crede che la condizione dell’essere, così come è rilevato, nasconde nella sua complessità, filamenti della corda della verità che si possono legare insieme, qui e lì, nell’arte; solo se crede che la condizione dell’essere lascia dietro di sé frammenti di verità, ossia della parola definitiva, inalterata dalle menzogne, dalla sofisticheria semantica, dai tentativi di insudiciarla per motivi dettati dal razzismo, dal sessismo, dal pregiudizio, dal dominio, dall’apoteosi della distruzione, dalle maledizioni e dagli inni di lode”. È la conclusione del suo discorso per il premio Nobel 1991, meritatissimo.
Nessun commento:
Posta un commento