Hanno uno strano e pressante senso di attualità, questi Fogli dal tascapane. Sarà perché le cicatrici europee (e non) della seconda guerra mondiale sembrano riaprirsi secondo imprevedibili cicli temporali, sarà perché Max Frisch scrive, come è noto, andando direttamente al nocciolo della questione, sarà perché l’idea di storia non si può distinguere da quella di conflitto, ma qui dentro c’è qualcosa di più di un diario da un fronte che non c’è. Siamo nel settembre 1939: Max Frisch, soldato semplice della Confederazione elvetica è mobilitato nell’eventualità di un blitzkrieg nazista. L’annessione dell’Austria e l’occupazione della Cecoslovacchia, avvenute in primavera, non lasciavano molti dubbi sulle bellicose intenzioni tedesche. La Svizzera, che dal 1515, l’anno della sconfitta nella sanguinosa battaglia dei Giganti, nei campi a sud di Milano, è rimasta sempre neutrale, si trova nella necessità di non farsi trovare impreparata e l’allarme è inevitabile. Solo che le porte dell’inferno si apriranno molto più a nord, in Polonia, e sul versante alpino le armi resteranno mute. Il nemico proprio non arriverà e ai volenterosi soldati svizzeri non resta che provare e riprovare un’idea di guerra in un ambiente naturale, quello del Ticino, pacifico per antonomasia. Per loro, preparati al sacrificio dalla retorica e dalla disciplina, la guerra resterà un’ipotesi, un esercizio di stile e un fantasma. Lo scenario è contraddittorio, se non proprio surreale (“Siamo chierici vaganti su ordinazione. I luoghi della memoria, non è possibile evitarli. Non siamo nati ieri; abbiamo dei ricordi e il nostro paese è troppo piccolo, il ripetersi degli scenari è sempre in agguato”) e per Max Frisch diventa l’occasione migliore per riflettere, aspettando il proprio turno sul calendario dell’apocalisse. Condita dall’incertezza, l’attesa genera appunti amari e taglienti, quelli che Max Frisch recupera sui suoi Fogli dal tascapane. “Tutti noi abbiamo un obiettivo per il quale l’esistenza è sempre troppo breve. Tutti si lasciano sfuggire l’irraggiungibile. Non tutti però ne parlano”, dice ad un certo punto e forse è proprio questo il primo indiscutibile pregio della sua testimonianza. Raccontare l’impossibile: l’assenza, i silenzi, i dubbi, le ombre, i pericoli, la noia, l’angoscia e anche l’idea, devastante, che “non c’è alcun senso in questo mondo, non c’è consolazione; c’è solo quel che c’è”. Lucido e umanissimo reportage emotivo dello spirito dei tempi, Fogli dal tascapane è anche un ritratto della nostra esistenza di lettori, quando dice: “Stiamo lì, osservatori obbligati, condannati a giudicare, condannati a vedere”. Valeva allora, e ancora di più oggi ed è l’occhio di Max Frisch a sapere cogliere nell’orizzonte rimasto vuoto e immobile un senso altrimenti imponderabile: “In tutti questi anni passati, quanti hanno continuato a desiderare ardentemente che la propria vita quotidiana cambiasse? Forse il cambiamento arriva sempre da dove meno lo si aspetta. Poiché è sempre l’orrore che ci fa andare avanti. Dipende, poi se lo si respinge o lo si accoglie dentro di sé. A che serve, allora, star tanto a imprecare? In fondo, può essere solo il cuore a decidere, alla fine, se si tratta di un periodo sterile o fecondo”.
Nessun commento:
Posta un commento