Una vita divisa in due, quella di Ariel Dorfman: tra sud (l’Argentina, il Cile) e il nord (gli Stati Uniti), tra lo spagnolo e l’inglese, tra politica e letteratura. Di contorno, un paio di incontri ravvicinati con la morte, all’epoca del golpe militare di Pinochet, nel settembre 1973. La scelta autobiografica di Verso sud guardando a nord è un tentativo di ricomporre le parti, perché, come scrive lo stesso Ariel Dorfman “quando ti senti sul collo il fiato dell’oblio, quando lui ti porta a fare un giro fino alla periferia del nulla e poi con uno strattone, ti lascia cadere di nuovo sulle spiagge della realtà, illeso e tremante, hai bisogno di trovare una ragione per crederci, un significato”. Il primo passaggio Verso sud guardando a nord è a Buenos Aires, dove è nato, poi New York, poi il Cile, la California nel 1968, e ancora l’Argentina, poi l’Europa e infine gli Stati Uniti. Seguendo cerchi che si intersecano, e una voglia di rivoluzione che aveva “molto più coraggio che speranze”. Verso sud guardando a nord racconta una vita ingorgata dalle utopie, spezzata dall’esilio e tenuta insieme dalla letteratura che Ariel Dorman definisce “il più grande inganno inventato dall’umanità”. È una boutade, naturalmente, perché è proprio quello lo strumento che gli permette di essere un testimone sincero sapendo che “tutto può essere nominato e che perciò, in teoria, o almeno nei desideri, il mondo ci appartiene. E che se non ci è consentito possederlo, nessuno ci può impedire di immaginare che ci sia tutto nel mondo, tutto ciò che il mondo può essere, che è da sempre”. Compresi gli errori della rivoluzione cilena di Salvator Allende, i legami pericolosi con gli Stati Uniti, gli orrori del golpe e, prima ancora, le sue stesse, personali contraddizioni davanti agli hippie di Berkeley e a quella parte di America che infine è diventata la sua casa. È un diario, in fondo, e in quanto tale è comprensibile che Ariel Dorfman consegni alla scrittura, florida e ipersensibile, la sua storia, ma le domande rimangono inalterate: “Ma è questa la verità? Forse mi sono raccontato questa storia così tante volte che ho finito con il crederci, nell’illusione di essere sfuggito alla morte per la forza della mia fantasia: il personaggio che avevo creato dal nulla mia aveva salvato da quel nulla, impedendomi di diventare qualcosa che non era più. È perfetto: è un bel gioco di simmetrie e fa una grande storia. Ma è anche vero?”. Se c’è una risposta è nella ragnatela di dubbi, sogni e amicizie che Ariel Dorfman insegue per impedire al dolore di distruggerlo: sa che L’avventura di un doppio esilio avrà comunque senso perché “non si può crescere senza recidere il legame che ci stringe al passato, imparare senza aprirsi a ciò che è estraneo, straniero e fecondo. Tutti coloro che hanno fondato nuove civiltà sono eroi che un tempo qualcuno ha cacciato via dalla loro casa. La salvezza può essere raggiunta solo attraverso il vagare”. La letteratura resta una piccola luce ed è il limite naturale di Verso sud guardando a nord: tra i suoni numerosi dualismi spicca quella tra la fedeltà all’autobiografia e la passione per il romanzo (ed è questo il vero accento “verso sud”) a cui Ariel Dorfman non rinuncia mai.
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