Le “esperienze spirituali spontanee”, piuttosto che gli “stati di alterazione”, sono stati guardati con sospetto (se non proprio banditi) sia dalle comunità religiose, sia da istituzioni ben più prosaiche, dominate (a fatica) da Freud e Jung, considerate improprie in quello che Charles Taylor definiva l’immaginario “orizzontale” in L’età secolare. In effetti la loro dimensione è piuttosto verticale e istantanea, quando “qualcosa cattura la nostra attenzione, ci scopriamo rapiti, il nostro respiro si fa più profondo e la vita delicatamente si trasforma da fardello a meraviglia”. La definizione di Jules Evans è la linea di partenza alla ricerca dell’estasi e alla considerazione del suo ruolo (scomodo) nell’ambito della cultura occidentale. Il suo approccio è più da antropologo che da filosofo: le prove sul campo, le indagini in prima persona mostrano più il tentativo di comprendere un fenomeno che di dimostrare una tesi. Il metodo empirico di Jules Evans è una scelta più che altro istintiva e dovuta a un antefatto doloroso e drammatico. La drammatica esperienze personale nei trip di acido (e la patologia post-traumatica da stress che ne è seguita) è la motivazione ambivalente per cui Jules Evans spalanca le porte del “festival dell’estasi” dove racconta le sorprese e le possibilità della contemplazione (spontanea), della meditazione (faticosa) e del contorsionismo erotico (imprevedibile). Con uno sforzo encomiabile, Jules Evans prova anche a comprendere, per quanto possibile, la violenza (assurda) come veicolo per raggiungere una qualche dimensione superiore, ma va da sé che L’arte di perdere il controllo si esercita soprattutto nella “costruzione di mondi”. Da Shakespeare a Marilynne Robinsonin“essere immersi nella lettura significa sprofondare in una realtà virtuale che noi stessi collaboriamo a generare” e così non di meno succede con il cinema di David Lynch o di Stanley Kubrick o nel “palco principale del festival”, il rock’n’roll, un luogo dove si può vivere “out of control” senza particolari effetti collaterali. L’allarme suona dall’altra parte della barricava. Gli assidui richiami ad Aldous Huxley servono proprio a ricordare che la genesi individuale e la “gioia collettiva” dell’estasi generano un attrito rispetto all’ordine costituito. Il carattere sovversivo e vitale resta implicito, ma permea tutti i passaggi delle “istruzioni per l’uso” perché è evidente che l’estasi è un’ospite difficile per le istituzioni di ogni forma e genere. Jules Evans si premura di sottolinearne i pericoli e le contraddizioni, ma le sue digressioni filosofiche, accordate a uno storytelling fluido, a tratti ironico, comunque pertinente e sincero, portano a concludere che il controllo delle emozioni e degli impulsi (se non proprio la loro rimozione) ha generato una reazione a catena per cui “dopo mezzo secolo di pace e prosperità, il multiculturalismo liberale ha apparentemente fallito nell’impresa di offrire alla popolazione un senso di appartenenza e un concetto di bene comune. Ha fallito nell’impresa di fornire una percezione di sicurezza e protezione in un mondo in costante e rapido mutamento. Ma, sopra ogni cosa, è scaduto in uno stantio managerialismo burocratico, non riuscendo a proporre alle persone una visione trascendente del futuro”. Il punto è questo: la guida per gli autostoppisti dell’estasi di Jules Evans sotto sotto è un manifesto politico (ammesso che la politica esista ancora) che è utile, se non altro, a districarsi tra visioni della rete e realtà dell’LSD, flussi di coscienza e di sudore, ipotesi di un futuro remoto e di molti passati irrisolti, gli Eventi di cibernetica e La tormentata eredità della rivoluzione e comunque ostinatamente in cerca di un equilibrio impossibile, perché “siamo tutti in fuga dall’obsolescenza”. È quasi un’ammissione di colpa che Jules Evans, molto più brillante di tanti filosofi prêt-à-porter, si può concedere, immaginiamo, con un sorriso sornione e un disco di Elvis in sottofondo.
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