Gli elementi tipici del classico noir ci sono tutti: la notte, la femme fatale, una quantità appropriata di fucili e pistole, Parigi, molto mistero, qualche segreto indicibile, e poi gli omaggi espliciti (Jim Nisbet, Georges Simenon, Cornell Woolrich) e impliciti (Jim Thompson, James Crumley, Charles Willeford) che echeggiano attorno a Chess, l’uomo dall’anima ferita che si incontra anche negli altri romanzi di Hugues Pagan, Dead End Blues e Quelli che restano. Il suo passato, con la guerra d’Algeria sullo sfondo, non gli concede tregua, i fantasmi si presentano puntualmente agli appuntamenti e lo vanno a trovare nei sogni o, meglio, negli incubi e lui gira per le strade della notte parigina come se cercasse di sfuggirgli. È un baltringue, uno zingaro, un vagabondo e, quando decide di fermarsi, intravede una fine, se non una morte, perché “puoi correre a lungo. Ma un bel giorno ti devi fermare. Sei sicuro di esserti lasciato tutto alle spalle, con i tuoi tormenti, le pene, tutto il ciarpame. Vorresti riposare un po’. A forza di correre, di sopravvivere a forza di espedienti, hai perso solo quel tempo troppo breve che ti separava dalla morte. Il tempo, e quel poco d’interesse per te stesso, quel briciolo di talento che ti rendeva l’esistenza più o meno sopportabile”. Gli fanno compagnia Thelonious Monk, Count Basie, Miles Davis, Leroy Carr, Mildred Bailey, Rory Gallaghe, Lonnie Johnson , Johnny Cash via Folsom Prison Blues con Carl Perkins e naturalmente Billie Holiday che lo accompagna da sempre, nelle sue peregrinazioni nel nulla fino a quando, in una notte come tante, gli appare Alex. La dark lady di turno nasconde qualcosa, forse tutto, e per un poliziotto sarebbe compromettente soltanto conoscerla. Chess se ne innamora (ricambiato alla grande) pur sapendo che “i nostri affetti, per brevi e limitati che siano, recano ogni volta il marchio di una vigliaccheria infinita. Nient’altro che scaramucce di retroguardia. Solo il timore del silenzio e quello della tomba le rendono più o meno comprensibili e talvolta scusabili. E il tempo, a sua volta, non ci lascia altra scelta che la routine o il lutto”. Le riflessioni, spesso dispensate negli incipit dei singoli capitoli, riportano il carattere tormentato e “blue” di Chess che nell’introspezione scopre come “è il nostro stesso dolore, in fondo, che meglio ci protegge dalla trappole e dalle tentazioni della vita, dalle nostre vigliacche aspirazioni alla felicità, dalla nostra triste e irragionevole voglia di sopravvivenza. E il sopravvivere, peraltro, è solo una questione fisica; l’anima si è già ritirata da un bel pezzo, è scesa in punta di piedi giù per lo stretto cammino dell’esistenza, si è persa per la troppa sofferenza, la troppa amarezza, soprattutto per la troppa lucidità. E per la tristezza. Niente è più triste di un’anima smarrita”. Il suo spleen, che spesso e volentieri risolve passando il tempo con armi, pistole e fucili di ogni calibro e dimensione, si sviluppa alla fragile love story con Alex e a un complesso intrigo, foriero di ricordi e di suggestioni, compresa l’attenzione verso gli intrecci mai chiari dei servizi segreti e della politica. Ci sono elementi a sufficienza perché La notte che ho lasciato Alex sia la degna conclusione della notevole trilogia che comprende Dead End Blues e Quelli che restano. Oltre tutto, Hugues Pagan è un bluesman che conosce la materia perché “un sacco di blues traboccano di treni e di uomini o donne ches torneranno mai più. È un discorso che vale anche per molte esistenze”. O per i suoi romanzi, dove anche un ritorno, un happy end, può significare l’esatto contrario.
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