giovedì 21 febbraio 2019

Frederic Manning

L’esperienza del “soldato semplice 19022” nasce con l’arruolamento, nel 1914, per arrivare a scoprire che “c’è una forza straordinaria nella guerra, una forza che spoglia l’uomo di ogni sua copertura convenzionale, lasciandolo inesorabilmente nudo come la realtà che deve affrontare”. La cruda consistenza di questa definizione fornisce l’essenziale DNA  su cui si sviluppa Fino all’ultimo uomo: è un diario puntiglioso che Frederic Manning compila nelle trincee della Somme, un girone dantesco dove, osservando i suoi commilitoni, non può esimersi di notare “la semplicità con cui questi uomini consideravano la vita conferiva loro una certa dignità. Quelle nature apparentemente brutali e rozze si confortavano e si incoraggiavano a vicenda, riconciliandosi con il destino, mostrando una tenerezza e un tatto davvero commoventi. Non possedevano nulla, nemmeno il proprio corpo, diventato un semplice strumento di guerra”. Gli ingranaggi militari hanno  qualcosa  di perverso, ancora prima della furia e del terrore dei combattimenti e Frederic Manning non manca di notarlo: “L’organizzazione dell’esercito dovrebbe funzionare con la precisione impersonale e spietata di una macchina, ma questa azione non è singola né indivisibile, e il fattore umano finisce sempre per inserirvisi, cosicché talvolta quello che dovrebbe essere l’inesorabile funzionamento della macchina assume il carattere di un duello tra opposte personalità; mentre l’azione meccanica, avendo raggiunto il suo scopo, si esaurisce, l’altra dura più a lungo. In quella monotona routine di impegni e doveri, che sembrava rendere la guerra una faccenda sordida e ottusa, si aveva la sensazione di un pericolo incombente, sensazione che era acuiti dagli sforzi per vincerla. Gli uomini che lottavano uniti, in continuo pericolo di vita, esigevano almeno che i rischi fossero equamente divisi. Potevano essere generosi e accettare ulteriori sacrifici senza lamentarsi, se erano effettivamente necessari, ma nei momenti di amarezza sembrava loro che il dovere e l’onore fossero semplicemente il pretesto per privarli dei più elementari diritti. Infatti, anche quando trasportavano materiale o erano impegnati nella normale routine della vita di trincea in settori relativamente tranquilli, gli uomini potevano essere uccisi in modo casuale e indiscriminato”. In quella quotidiana anticamera della morte, tutto è possibile, anche un’incredibile distinzione tra gli stessi soldati perché “quando si appartiene alla truppa, si vive in un mondo di uomini, pieno di imprevisti e di interessi umani; al contrario, quando si diventa ufficiali, si è parte di una macchina inflessibile e inumana e anche se pensava che la guerra, come sforzo morale, fosse magnifica, sentiva che come operazione concreta lasciava molto a desiderare”. Fino all’ultimo uomo non è una lettura agevole, perché Frederic Manning non concede tregua, è ossessionato dai dettagli della vita al fronte, e brutale nel riportarli in tutta la loro inconsistente follia, valga su tutti la descrizione dell’appello: “Se uno si presenta, allora dobbiamo presentarci tutti. E farlo non ha alcun senso, a meno che ci spediscano in prima linea con tutta la compagnia. Comunque, queste maledette esercitazioni non servono a niente. Un branco di pezzi grossi elabora i piani più complicati e invia istruzioni a tutti gli interessati. Al che gli ufficiali sono tenuti a esaminare una mappa della posizione da attaccare: a quel punto tocca a noi essere presi per i fondelli e portati su un finto campo di battaglia, segnato per miglia e miglia con linee che vorrebbero indicare le trincee. Quando poi tutto è fatto, e si pensa che ciascuno sappia esattamente come deve comportarsi, l’operazione viene annullata e noi andiamo in prima linea senza sapere un cazzo di quello che dovremo fare”. Nonostante ciò, Fino all’ultimo uomo riesce ad andare oltre la paura, il dolore, la fame, il fango, le malattie e gli incubi, ed è dove Frederic Manning si avvede che “in realtà, sebbene la pressione delle circostanze esterne sembrasse cancellare ogni traccia di individualità, dentro di sé ciascuno era ben consapevole di ciò che era. Del resto, se non si poteva essere certi di se stessi, non si poteva essere certi di nulla. Il problema che tutti dovevano affrontare in ugual misura, sebbene alcuni fossero restii o incapaci di definirlo, non riguardava tanto la morte, quanto l’affermazione della loro volontà di sopravvivere”. Molto grezzo, ma altrettanto sincero. 

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