mercoledì 27 febbraio 2019

James Campbell

Questa è la Beat Generation: una forma di letteratura che pochi hanno affrontato perché ha bisogno, nell’ordine, di una vita intera spesa a proposito, di tanta benzina (reale e metaforica) e di un qualche additivo che bisogna essere capaci di sopportare, più della fatica e dello sforzo della scrittura. È quello che emerge dall’analisi storica che James Campbell conduce in modo molto discorsivo, senza lasciarsi trascinare né dagli eventi né dagli entusiasmi e guardando ai protagonisti della Beat Generation con attenzione e lucidità, ma anche con un grande rispetto. È una storia che scorre, senza fare troppa confusione e non si tratta della solita celebrazione, magari un po’ nostalgica, dei bei tempi che furono: la Beat Generation che ruota essenzialmente attorno a Jack Kerouac, Allen Ginsberg e Williams Burroughs è riportata tenendo sempre ben presente l’importante definizione di John Clellon Holmes, ovvero “un uomo è beat ogni volta che rischia il tutto per tutto”. Per cui Jack Kerouac che torna a casa dalla mamma, William Burroughs e i suoi fantasmi, Allen Ginsberg e la sua elaborata psicologia, pur essendo elementi a cui James Campbell dedica un’attenzione di riguardo, restano sullo sfondo, di contorno. I nodi centrali di Questa è la Beat Generation rimangono, come sempre, i sogni e le illusioni, le teorie folli e sincere, le ambizioni spropositate. Jack Kerouac, per esempio, quando diceva: “Ho voglia di scrivere un romanzo gigantesco su tutto”, oppure il vademecum di Neal Cassady: “Ho sempre sostenuto che quando uno scrive dovrebbe dimenticare tutte le regole, gli stili letterari e altre vanità come parole lunghe, le frasi altisonanti... Penso che uno debba piuttosto scrivere il più possibile come se fosse il primo uomo del mondo e stesse umilmente e sinceramente mettendo su carta quello che ha visto e sperimentato e amato e perduto, quali erano i pensieri passeggeri e le sue pene e i suoi desideri”. Qui dentro c’è tutto il senso della Beat Generation, che ancora oggi, a distanza di cinquant’anni, non ha perso nulla della sua carica emotiva, e ha fatto del suo fallimento la più grande vittoria. Resta validissima la descrizione Michael McClure: “Una voce umana e un corpo erano stati scagliati contro il duro muro dell’America e dei suoi eserciti di alleati e di marina e accademie e istituzioni e sistemi di proprietà e le basi che sostengono il suo potere”. Gli snodi essenziali sono tutti presenti, anche se James Campbell si tiene a distanza di sicurezza dall’approfondire i temi portanti e/o dall’analisi critica. Il racconto dei momenti vitali, per quanto semplificato, è esaustivo, con qualche ripescaggio degno di nota come la rivisitazione del ruolo di Mezz Mezzrow, il ricordo della seminale rivista Neurotica (“Ci interessa esplorare la creatività di quest’uomo che è stato costretto a vivere in clandestinità”) e poi via via la City Lights, Tangeri e il Pasto nudo, il Beat Hotel, Ginsberg e Urlo,  il “rotolo” di Kerouac, i legami e i contrasti con la musica e la letteratura afroamericana. Il ruolo del jazz è riportato con dovizia di particolari (come è giusto che sia) perché, come spiega molto bene John Clellon Holmes, gli amici della Beat Generation ci vedevano “qualcosa di ribelle e senza nome che parlava a nome loro, e le loro vite per la prima volta conobbero un vangelo. Era più di una musica: diventò un atteggiamento verso la vita, un modo di camminare, un costume”. I riferimenti letterari non mancano: dalle epigrafi in omaggio ai poeti francesi al tributo di Emerson a Whitman (luglio 1855: “Mi congratulo per l’inizio di una lunga carriera, che deve essere destinata a una duratura posizione di preminenza, se il suo inizio è così promettente”) e la sua parafrasi in quello di Ferlinghetti a Ginsberg nell’ottobre 1955 (“Mi congratulo per l’inizio di una lunga carriera. Quando mi mandi il manoscritto?”) James Campbell è prodigo di suggestioni. La più importante resta quella dedicata a Jack Kerouac e al mare nell’incipit di Questa è la Beat Generation, anche perché riporta ancora alle quattro costanti della letteratura dell’America “eterna ed essenziale” secondo Harold Bloom: mare, madre, morte, notte. Non sarà difficile ritrovarle Sulla strada, un viaggio che puntava soprattutto verso nuove dimensioni mentali, piuttosto che in cerca di destini topografici, come ha capito per tempo Henry Miller, che ha detto: “La nostra meta non è mai stata un luogo, piuttosto un nuovo modo di vedere le cose”. Come corollario a Questa è la Beat Generation, che resta un ottimo strumento introduttivo, è consigliabile anche il bellissimo The Beat Book di Anne Waldman. È un’antologia curatissima, con una prefazione di Allen Ginsberg che sembra la spiegazione finale di cosa è stata la Beat Generation: “Credo che le generazioni più giovani siano attratte dall’esuberanza, dall'ottimismo libertario, dallo humor erotico, dalla franchezza, energia continua, invenzione e amicizia collaborativa di quei poeti e cantanti, da Burroughs a Bob Dylan fino ai giovani Beck o Geoffrey Manaugh. Avevamo un gran lavoro da fare, e lo facciamo, cercando di salvare e guarire lo spirito d’America”. Questa è la Beat Generation ed  è così che altri ragazzi (di ogni età) scopriranno ancora e ancora le follie e i sogni di questi stravaganti poeta convinti che si potesse scrivere come Charlie Parker suona il sassofono e che si potesse vivere come Walt Whitman scriveva in Foglie d’erba

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