giovedì 28 febbraio 2019

Jean Baudrillard

Lo storico intervento di Jean Baudrillard partiva dalla concezione che “l’arte è prima di tutto un trompe-l’œil, un inganno della vista e un inganno della vita, così come ogni teoria è un inganno del senso”. Baudrillard è stato lucidissimo nell’affrontare la cultura predominante e debordante delle immagini, dello schermo, della superficie e del suo riflesso, una dittatura della forma fine a se stessa, schivando i tracciati filosofici e critici. La sua ammirazione, a tratti entusiasta, per Andy Warhol (“Credo che Andy Warhol sia stato l’unico artista, in un momento in cui l’arte si è trovata coinvolta in un movimento di transizione molto importante, ad aver saputo anticipare i mutamenti”) ha dei caratteri paradossali. Andy Warhol incarna più di tutti e in modo geniale, va detto, l’aspetto meccanico dell’arte, e della sua riproduzione, in scala e in catena di montaggio, eppure Baudrillard vede proprio in lui l’essenza del “complotto” che ha portato “a riappropriarsi in modo più o meno ludico, più o meno kitsch, di tutte le forme e le opere del passato, vicino o lontano, o addirittura già contemporaneo”. Il deus ex machina della Factory è andato oltre e Jean Baudrillard gli riserva parole ammirate, anche all’interno di un contesto molto critico: “Warhol ci offre l’illusione pura della tecnica, la tecnica come illusione radicale, di gran lunga superiore, oggi, a quella della pittura. In questo senso, persino una macchina può diventare famosa, e Warhol ha sempre aspirato solo a questa celebrità macchinale, senza conseguenze e che non lascia traccia”. Resta da capire cosa è stata e cosa è diventata l’arte e qui in aiuto arriva Sylvère Lotringer, a spiegare come “proclamare inesistente l’arte contemporanea non era per Baudrillard un giudizio estetico ma un problema antropologico. Un gesto polemico rivolto alla cultura nel suo insieme, che oggi è simultaneamente tutto e niente, elitaria e insieme volgarmente materialista, ingegnosa, scaltra, astuta, pretenziosa e penosa per dirla tutta, a dispetto del suo soddisfatto affannarsi”. L’elemento provocatorio è implicito, anche se Baudrillard sente il dovere di approfondirlo: “Quando parlo di complotto dell’arte uso una metafora, come quando parlo del delitto perfetto. Non si possono indicare gli istigatori del complotto più di quanto si possano individuare le vittime. Giacché il complotto non ha un autore e tutti sono al tempo stesso vittime e complici. La stessa cosa avviene in politica: siamo tutti abbindolati e tutti complici del tipo di messinscena, per esempio. Una sorta di non-credenza, di non-investimento fa sì che tutti facciano un doppio gioco in una specie di circolarità infinita”. La produzione di Andy Warhol sembra fatta apposta per concentrare le attenzioni di Jean Baudrillard: “Tutti questi artefatti, tutti questi oggetti e queste immagini artificiali esercitano su di noi una forma di fascinazione, di radiosità artificiale; i simulacri non sono più simulacri, tornano a essere di un’evidenza materiale, feticci, forse, al tempo stesso completamente spersonalizzati, desimbolizzati, e tuttavia di massima intensità, investiti direttamente come medium, come è l’oggetto feticcio, senza mediazione estetica”. Il complotto dell’arte serve a leggere oltre i valori estetici perché “uno sceneggiatore geniale (forse il capitale stesso) ha trascinato il mondo in una fantasmagoria di cui siamo tutti vittime affascinate”. In questo senso è più logico parlare di quella che, nell’intervista a Catherine Francblin, viene chiamata La commedia dell’arte e in cui Baudrillard trova il modo di precisare che “non esiste più un imperativo critico, questo mi sembra essere l’unico potenziale di opposizione possibile, un altro complotto, ma enigmatico, indecifrabile”. Le iperboli di Baudrillard superano Il complotto dell’arte (“Quello che oggi chiamiamo arte sembra testimoniare un vuoto irrimediabile. L’arte è mascherata da idea, l’idea è mascherata da arte”), scrutano negli schermi grandi (“Il cinema attuale non conosce più né l’allusione né l’illusione: passa da una sequenza all’altra in un modo ipertecnico, iperefficace, ipervisibile. Non c’è bianco, non c’è vuoto, non c’è ellissi, non ci sono silenzi, proprio come alla televisione, con la quale il cinema sempre più si confonde perdendo la specificità delle sue immagini; andiamo sempre più verso l’alta definizione, cioè verso la perfezione inutile dell’immagine”) e piccoli (“Ogni cosa, prima del suo segreto e della sua illusione, è condannata all’esistenza, all’apparenza visibile, è condannata alla pubblicità, al far credere, al far vedere, al far valere. Il mondo moderno è, nella sua essenza, pubblicitario”), graffiandone la fredda, effimera superficie (“L’immagine non può più immaginare il reale perché essa stessa è il reale, non può più trascenderlo, trasfigurarlo, sognarlo, perché ne è la realtà virtuale. Nella realtà virtuale è come se le cose avessero ingoiato il loro specchio”). Una concezione che Baudrillard vive al di là dei ruoli e delle specifiche competenze, ammettendo di giocare “volutamente il ruolo di uno che sembra ingenuo e scandalizza per la sua franchezza, di uno che non sa ma fiuta qualcosa”. L’intuizione fondamentale è che “viviamo in un mondo di simulazione, in un mondo in cui la funzione più alta del segno è quella di far sparire la realtà e mascherare in pari tempo questa sparizione” e perché Il complotto dell’arte si manifesti “bisogna che ogni immagine tolga qualcosa alla realtà del mondo, che in ogni immagine qualcosa sparisca, ma senza cedere alla tentazione dell’annientamento, dell’entropia definitiva, bisogna che la sparizione resti viva, è questo il segreto dell’arte e della seduzione”. Andy Warhol aveva capito tutto.

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