Derek Raymond è un narratore che ha capito il vero potere del noir, ovvero quello di essere il romanzo più vicino alla realtà e alla società in cui viviamo, pur con la coscienza di sfiorare soltanto una superficie come ammette il suo personaggio preferito, il sergente della A14 (sezione casi irrisolti): “Mi rendo conto che facciamo parte di una storia molto più grande di noi, e che ci sembra senza senso solo perché non siamo che gli ultimi fili dell’ordito. Di noi non resta che questa immagine incerta e consunta; il nostro orgoglio è stato male interpretato e si è dissolto; il terreno più fertile non è stato messo a frutto”. Ne è la riprova Come vivono i morti: il sergente della Factory, lascia Londra per una missione in periferia, dove lo attende un’accoglienza che è un misto di abulia e indifferenza. Non che si attendesse un granché, comunque, visto che la sua condizione è tale che è arrivato a pensare: “Il mio lavoro mi dice che la nostra storia è finita, che il nostro tempo è scaduto. So che ci si aspetta che nel mio lavoro rappresenti un futuro, ma mi sembra impossibile quando mi giro a guardare il passato”. La riflessione si adegua alla perfezione alle indagini che deve affrontare: una donna bella, colta, stimata è sparita da sei mesi senza lasciare traccia. Non è proprio un caso di omicidio (la sua specialità) e nemmeno un rapimento: somiglia di più ad uno di quei rebus insolvibili che fanno proprio per lui. E infatti è così: dietro la sua scomparsa si celano dolore, amore, follia, ma anche un crudele, rozzo e cinico giro d’affari. Macabri e torbidi: di più non si può svelare, ma bisogna aggiungere che Come vivono i morti racconta la provincia inglese (che poi è un po’ uguale ovunque) con il coraggio di andare oltre la solita descrizione un po’ eccentrica, pettegola, comunque evanescente. Nelle mani di Derek Raymond diventa un posto pericoloso, come qualsiasi bassofondo, e forse di più, perché rivela un’innata tendenza a nascondere tutto sotto il tappeto, nelle cantine o in giardino, dietro le apparenze di una normale tranquillità. Un territorio più subdolo tale che il sergente della A14 arriva a una conclusione disarmante: “Mi sembrava che tutti non avessimo fatto altro che errori, con cui adesso ci toccava convivere. Sarebbe stato meglio essere stupidi, o addirittura pazzi. Il vero tormento è la capacità di comprendere; forse saremmo più onesti senza la conoscenza”. Non conoscendo altri strumenti per uscire dall’impasse ricorre a metodi poco ortodossi, ma sperimentati più volte sul campo: lavora da solo, litiga con i superiori (qui li prende persino a pugni), si ritrova sotto inchiesta, ma arriva fino in fondo. E quello che scopre non è bello per nessuno, per quanto sia stimolante (e spaventoso) per i lettori, perché “le storie vere non sono mai piacevoli”. Senza dubbio Derek Raymond sa renderle convincenti, non a caso nelle nelle convulse fasi finali di Come vivono i morti si legge: “La realtà va messa in discussione, non accettata. La materia è come una tenda opaca che si tira per far luce o far buio. Siamo attraversati da schegge di invisibile piene di errori”. Derek Raymond lo fa dire a un pazzo, però sono parole molto, molto vicine alla verità, di sicuro adatte alle meditazioni del sergente della Factory quando si accorge che “così di colpo, era tutto finito, e mi resi conto un’altra volta di come tutto sia molto più complicato e serio di quanto ci immaginiamo, non che ne avessi mai dubitato”. Nerissimo, e ineccepibile.
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