I soldati argentini nascosti in un dedalo di tunnel nella primavera del 1982 sono ossessionati dall’Harrier, un aereo inglese in apparenza minuscolo, goffo e bizzarro. Arriva direttamente dal mare come una tempesta, agilissimo, veloce e sfoggiando una panoplia di armi di ogni tipo: mitragliatrici, bombe a guida laser, razzi, missili. All’improvviso diventa enorme, schiacciante, sopra la testa, come a ricordare che “sono loro a decidere le proporzioni”, e anche la prospettiva visto che l’Harrier vola usando sia gli assi verticali che quelli orizzali, mentre gli armadilli, così come si sono ridenominati i coscritti della junta di Leopoldo Galtieri, sono al tempo stesso fuggiaschi e prigionieri in una buca fetida, come se fossero già nella tomba. Il paradosso è l’elemento vitale e trascinante di Scene da una battaglia sotterranea: Rodolfo Fogwill ha creato una guerra immaginaria che appare più consistente di quella reale, o almeno da come è descritta dai mezzi di informazione e dalle analisi storiche. Mentre la radio argentina annuncia ad libitum la vittoria, la fine si avvicina e gli armadilli non hanno scampo e attirano una gamma insostenibile di conflitti. Sono giovani, provinciali, impauriti addestrati poco e male visto che “combattere, combattere, in realtà non sapeva farlo nessuno. L’esercito recluta dei buoni soldati, gli insegna più o meno a sparare, correre, a tenere il ordine l’equipaggiamento, e con un po’ di fortuna gli insegna a piantare bene la baionetta, poi però arriva la guerra e scopri che si combatte di notte, con le radio, i radar, i miri a infrarossi, al buio, e che l’unica cosa che sai fare bene, ovvero correre, non la puoi mettere in pratica perché dietro di te, ma mano che avanzi, quelli del tuo reggimento hanno piazzato delle mine. E le mine sono il peggio del peggio”. Gli ordini, quando ci sono, restano incomprensibili perché i superiori sono distanti, ambigui, riluttanti, attitudini che si riflettono in “quel modo lì di parlare. Uno diventa ufficiale e cambia modo di parlare. Cambiano alcune parole: vogliono dire la stessa cosa, hanno lo stesso significato, ma sembrano qualcosa di più, come se chi le dice pensasse di più o fosse di più”. La catena del comando è una delle insidie più temibili, insieme al freddo, alla fame, al buio, alla diarrea (un incubo), alle ferite (“Feriti è come essere morti”) e alla solitudine perché anche se sono schiacciati giorno e notte uno contro l’altro, gli armadilli sono abbandonati e isolati tra lunghe ondate di noia e sprazzi di puro e semplice terrore. L’Harrier non è l’unico assillo che si muove lungo gli assi x e y: “chi aveva visto gli elicotteri, scendere, non passare, non voleva più tornare al freddo perché gli elicotteri, il fracasso, l’odore e gli uomini degli elicotteri, spaventavano più degli Harrier solitari, anche se ammazzavano meno gente. Ma nelle ultime settimane, quando ormai si vedeva arrivare la fine, era normale incrociare stormi di elicotteri che calavano uomini, e non c’era rimedio”. L’arrivo del nemico è spaventoso, ancora prima che comincino i combattimenti: sfoggia una forma fisica invidiabile, è più pagato, più efficiente, più motivato e, in definitiva, più professionale. Gli armadilli sono ammirati e disorientati in parti eguali e, da quella dimostrazione di guerra come “metodo”, colgono l’ennesima opportunità per salvarsi, a dispetto della retorica della patria, del dovere e dell’onore, andato consumandosi in una marea di merda. Scene da una battaglia sotterranea è un romanzo grezzo, immediato e istintivo che risponde alla determinazione, ribadita da Rodolfo Fogwill in ogni nuova edizione: “Non ho scritto un libro sulla guerra, ma su me stesso e sulla lingua di uno che non scriverà mai contro la guerra, contro la pioggia, contro i terremoti né i temporali, ma scriverà sempre contro i modi sbagliati di chiamare il nostro destino e di conviverci”. Un piccolo capolavoro.
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