Quando arriva a Bombay, Gregory David Roberts non ha più nemmeno il suo nome. Alle spalle ha una condanna per rapina, in Australia, e un’evasione. Non può tornare indietro, non si può mai tornare indietro. Ma quando arriva a Bombay non ha sciolto ancora il nodo che lo lega al suo passato: “La mia cultura mi aveva insegnato bene le cose sbagliate” dice nel corso di Shantaram e lui tutte quelle “cose sbagliate” comincia a metterle in funzione anche in India dove traffica con la mafia e altre forme di delinquenza. Le discese negli inferi non bastano mai e il passaggio per finire a combattere in Afghanistan, all’epoca dell'invasione e dell’occupazione sovietica, è un semplice flashback della memoria. Uno dei tanti perché Shantaram raccoglie a piene mani dalla tormentata autobiografia di Gregory David Roberts per trasformarsi in un voluminoso romanzo in cui s’incrociano e si amalgamano la tradizione dell’avventura, un’appariscente vocazione per la filosofia e, inevitabilmente, l’articolatissimo e variopinto mondo della cultura e della vita quotidiana in India. Una miscela plasmata nel tentativo concentrare in Shantaram l’esperienza dell’esilio. Victor Hugo (uno dei modelli di riferimento di Gregory David Roberts, insieme a Flaubert, Stendhal, Melville, Joyce, Henry James e Joseph Conrad) diceva: “Non sai cosa ti aspetta, esule. Sei fuggito, ma non ti sei liberato”. È proprio la condizione vissuta da Gregory David Roberts, però un centinaio di anni più avanti rispetto alle sue letture: “Per un artista, il ventesimo secolo è un’opportunità di confronto infinita e la caratteristica che più mi ha affascinato è l’alienazione. È stato un secolo in cui la gente si è alienata dalle precedenti idee sulla vita. Alienati dalla vita, dalla religione, dai legami che poi hanno cominciato a viaggiare per il mondo. Possiamo chiamarla diaspora, possiamo chiamarla migrazione, possiamo chiamarlo esodo: in realtà è sempre stato un esilio”. Gregory David Roberts scrive con il cuore in mano, senza cercare particolari effetti linguistici o raffinate soluzioni letterarie: in un certo senso si percepisce pagina dopo pagina che la sua storia preme per uscire. Tra un’enorme varietà di personaggi, spesso in lotta tra loro in guerre più o meno dichiarate, Gregory David Roberts o meglio Lin, come viene chiamato a Bombay, finisce per essere il bersaglio preferito di una vendetta, di un risentimento, di qualche affare andato male e gli capita di trovarsi più di una volta in celle infestate da insetti famelici piuttosto che da carcerieri cinici e crudeli. Se riesce a salvarsi è perché non dimentica mai che “un uomo sano di mente è soltanto uno che sa mentire meglio di un pazzo”. In tutto questo la sua ricerca di una luce è incessante perché, come scrive in uno dei passaggi nascosti tra le mille pagine di Shantaram, “uno dei motivi per cui abbiamo un terribile bisogno d’amore e lo cerchiamo disperatamente, è perché l’amore è l’unica cura per la solitudine, la vergogna e la sofferenza. Ma alcuni sentimenti si nascondono così profondamente nel cuore che solo la solitudine può aiutarti a ritrovarli. Alcune verità sono così dolorose che solo la vergogna può aiutarti a sopportarle. E alcune circostanze sono così tristi che solo la tua anima può riuscire a urlare di dolore”. Shantaram è un feuilleton nel senso più nobile del termine: ricco di colpi scena, movimentatissimo dall’inizio alla fine, scorre come un film già scritto.
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