Brion Gysin, pittore e libero pensatore che ebbe un’influenza non relativa su William Burroughs disse, una volta: “Considero la vita una collaborazione fortuita attribuibile al trovarsi nel posto giusto al momento giusto”. Non c’è dubbio che, tra il 1957 e il 1962 il luogo ideale fosse il numero 9 di rue Git-Le-Coeur, nel cuore del Quartiere Latino di Parigi, sede del fantasmagorico Beat Hotel. In quegli anni, il via vai dei sognatori della Beat Generation, Allen Ginsberg in testa, aveva eletto una piccola, malandata e pittoresca locanda a propria sede elettiva e da lì aveva cominciato a spedire le sue variopinte illuminazioni al mondo intero. Il Beat Hotel fu la base di lancio, giusto per citarne un paio, del Pasto nudo di William Burroughs e della Bomba di Gregory Corso, la famosa poesia a forma di fungo atomico, ma è stato anche il crocevia in cui la rivisitazione della musica popolare e tradizionale di Ramblin’ Jack Elliott incontrò la poesia della Beat Generation, prima di approdare tutti insieme a New York e scoprire con Bob Dylan che il complesso intreccio si era già compiuto. Con una ricostruzione meticolosa, ma anche con una prosa molto scorrevole Barry Miles riproduce tutto lo strambo calendario e l’altrettanto disordinata routine del Beat Hotel, compresi legami e umori, fatiche ed economie (sempre del tutto improbabili), screzi e follie, esperimenti poetici, trattative editoriali e improvvise illuminazioni, compresa la scoperta del cut-up, raccontata in un’ennesima versione e con un’altra prospettiva. Per dirla con Gregory Corso, la vita al Beat Hotel “è quel che è ed è ciò che sta succedendo, e fanculo”. Tutto rigorosamente scandito dagli eccessi libertini che Parigi elargiva con generosità: “In genere la droga veniva consegnata al destinatario a domicilio nell’albergo, ma si poteva anche reperire con facilità nei caffè algerini e marocchini vicino a rue Sain-Sèverin e alla Palette. Il meraviglioso mercato di bancarelle di rue de Buci distava solo qualche minuto, e in rue de la Huchette era possibile fare la spesa fino a tardissimo. C’era un posto chiamato Ali Baba dove chi alloggiava all’albergo poteva comprare da mangiare fino alle due di notte, se voleva cenare tardi; la frutta esposta sul marciapiedi era coperta da una rete che la proteggeva dai ladri di passaggio. A molti dei residenti dell’hotel quella zona sembrava il paradiso”. Sembrerà strano, ma l’unico a non aver visitato e/o vissuto il Beat Hotel è stato Jack Kerouac, e quindi, a distanza e con una certa obiettività, riassunse così lo stile di vita dominante: “Conveniamo tutti che è troppo per potervi tener testa, che siamo circondati dalla vita, che non la capiremo mai e così risolviamo tutto quanto tracannando whisky dalla bottiglia e quando la bottiglia è vuota io mi precipito giù dalla macchina e ne compro un’altra, punto”. In fondo alla sua prospettiva, s’intravede, speculare, quella di Marchel Duchamp che degli ospiti del Beat Hotel seppe dire: “Mi piacciono questi beat. Sono sbronzi marci ma sono infantili, meravigliosi. Sono certo che sono grandi poeti”. Barry Miles non perde per strada un particolare che sia uno, anche se il più bello, forse per discrezione, lo lascia intuire: a differenza di molti altri luoghi storici della letteratura e del rock’n’roll, nel Beat Hotel non morì nessuno e divenne famoso invece per la vitalità (per quanto sregolata) dei suoi abitanti. Non a caso, Il Beat Hotel chiuse i battenti un attimo dopo che se ne furono andati tutti (Brion Gysin per ultimo) nella primavera del 1963 quando ormai, come scriveva William Burroughs, avevano imparato a “tradurre parole e lettere in colori”. L’omaggio resta doveroso: a furia di poesia, quei pazzi sapevano trasformare in mito ogni angolo scalcinato, compreso il mondo disgraziato in cui vivevano.
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