Interni
ed esterni di una famiglia aristocratica inglese negli anni sessanta:
una decadenza inarrestabile che si trascina in un folle e amaro
vortice di solitudine, disperazione e distruzione: anche se non è
uno degli episodi della Factory, la saga per cui è diventato
giustamente famoso, Atti privati in luoghi pubblici è a pieno
titolo un romanzo degno della visione narrativa di Derek Raymond, che
qui si applica a mondi che ha conosciuto in prima persona, ovvero
quelli dell’aristocrazia e della pornografia. L’associazione
autobiografica deve aver avuto un peso specifico non relativo, vista
l’acidità con cui viene trasmessa dallo stesso Derek Raymond.
Tutto si svolge all’ombra della Swingin’ London, un momento che,
messi da parte miti e leggende, viene inquadrato così: “L’ottanta
per cento della popolazione britannica stava mollo nell'ignoranza e
nella miseria, nell’infelicità, nell’anno di grazia 1967,
semplicemente perché il denaro non arrivava nelle loro tasche, o
perché non avevano il tempo di fare buon uso di quello che
guadagnavano, o le due cose insieme”. E’ quello il contesto in
cui un manipolo di rampolli di buonissima famiglia si lascia andare
alle deviazioni rispetto all’ipocrisia imperante, senza accorgersi
di essere finiti nell’inevitabile cul de sac. Viper e Mendip si
sono scelti un ramo aziendale insolito e piuttosto torbido (tengono
insieme una serie di sexy shop) e, se non altro, tutto sommato almeno
un senso degli affari l’hanno mantenuto. Le sorelle (e loro cugine)
Lydia e Beatrice invece hanno manifestato tutto il loro dissenso
verso le tradizioni, i riti e i codici della famiglia. Lydia si è
dedicata alla più completa dissoluzione del corpo e della mente (“La
noia, se ne rendeva conto, in lei occupava il posto di tutte le
passioni. La noia era al contempo rabbia, gioia, amore, piacere dei
sensi, in lei”), passando dai film pornografici alla prostituzione;
Beatrice si è rinchiusa in soffitta a studiare Marx ed Engels, sommo
sfregio all’aristocrazia famigliare, insieme al fatto (ancora più
grave) che si degna di pranzare e cenare soltanto con la servitù.
Una serie di eventi li porteranno tutti quanti (una bella compagnia,
tutto sommato) nella ricca villa di famiglia. Nello scenario della
bucolica campagna inglese, tra scenate irripetibili (“L’avidità
era il loro comune terreno d'intesa. L’arroganza il loro comune
linguaggio”), clamorosi colpi di scena e un intero catalogo di
follie si consumerà, per intero, il dramma di un declino squallido,
travolgente e spietato. Gli Atti privati in luoghi pubblici sono
fotografati in modo molto lucido e convincente da Derek Raymond.
Domina, incontrastato, il suo tratto spigoloso, tagliente che non
concede nulla ai suoi personaggi se non una lunga, cupa e atroce
discesa negli inferi che si sono creati. Nessun luogo comune, nessuna
pietà e nessun effetto speciale: a Derek Raymond basta e avanza la
sua geniale idiosincrasia verso il genere umano per arrivare fino in
fondo. Senza scampo, senza via d’uscita.
martedì 31 ottobre 2017
lunedì 30 ottobre 2017
J. G. Ballard

venerdì 27 ottobre 2017
Hilary Mantel
Andrew
e Frances Howe si trasferiscono in Arabia Saudita, a Gedda, dove lui
dovrà sovrintendere alla costruzione di un nuovo e sontuoso palazzo
ministeriale. La Turadup, la società inglese che ha in appalto i
lavori, pensa a tutti i dettagli, con la mediazione di Jeff Pollard
e sotto la responsabilità diretta di Eric Parsons, due figure che
avranno un ruolo non relativo durante gli Otto mesi a Ghazzah
Street trascorsi dagli Howe. Provenienti dall’Africa, già
allenati a sopportare condizioni estreme e pericolose, apartheid
compreso, Andrew e Frances affrontano l’impegnativo trasloco
soltanto in virtù di un congruo riconoscimento economico: fuori
dalle mura dell’appartamento affittato dalla Turadup c’è un
mondo ostico, che però paga stipendi come da nessun’altra parte.
Andrew è assorbito e sfiancato dal lavoro, Frances accusa ben presto
un senso di isolamento, acuito dalle condizioni sociali e climatiche.
Il calore opprimente si condensa nel senso di claustrofobia, persino
all’aria aperta, anche di fronte al mare, dovuto all’attrito
costante con le regole e le tradizioni, l’ipocrisia e i segreti
celati dietro le porte chiuse, le voci e la lettura delle lettere ai
giornali, le difficoltà nelle comunicazioni, perché “da quelle
parti la curiosità è un fenomeno transitorio. Non che si venga a
sapere tutto, ma nel giro di poco s’impara a conoscere ciò che è
consentito. E’ un tipo di società riservata che non rende noti i
propri difetti e non svela il modo in cui ragiona, che risponde alle
domande pressanti con un’ondata di disinformazione e poi torna al
suo prediletto silenzio. Una porta si chiude e, mentre stai mettendo
insieme i luoghi comuni di tua conoscenza, se ne chiude un’altra,
sbattendo”. Solo questi gli elementi che trasformano gli Otto
mesi a Ghazzah Street in un’eternità. In effetti, la
dimensione temporale è falsata, non soltanto dal calendario
islamico, per cui “il tempo sembra scorrere a ritroso”. La
giornata a Gedda è lunga, scorre come la polvere, impercettibile,
sfuggente, friabile: l’unica attività concreta è andare a far
compere, ma anche quello comporta limiti e rischi, in particolare se
ci si avventura nel suk. Non a caso, il condominio dove abitano gli
Howe è chiamato “il capolinea”: lì crollano in sonni agitati,
bevono vino fermentato di nascosto e cercano di seguire le
consuetudini degli espatriati, che sono quasi una società segreta.
Il rischio di essere espulsi o (peggio ancora) di essere trattenuti è
costante così come è continua l’ostilità verso le donne,
costrette ad assecondare le imposizioni locali, a limitarsi, se non
proprio a nascondersi. L’alternativa a Ghazzah Street, al
“capolinea”, sarebbe (il condizionale è obbligatorio) un
compound di maestranze occidentali, ancora più isolato, dato che la
direttiva aziendale firmata da Eric Parsons è inequivocabile: “Il
meglio che ci è concesso di fare, come individui, è tenerci alla
larga dai guai”. Con una scrittura agevole, priva di inflessioni e
complicazioni, Hilary Mantel riesce a rendere alla perfezione il
senso di estraneità di Frances (soprattutto) e Andrew: la vita a
Gedda è un’intricata nebulosa di leggi (scritte, dette e non
dette) e al “capolinea” la trasferta professionale si sublima in
un segmento di tempo alieno finché l’idea dell’esilio non appare
del tutto fuori luogo. Un bel romanzo, utile ed efficace.
mercoledì 25 ottobre 2017
Herman Koch

martedì 24 ottobre 2017
Anthony Burgess
Pubblicato
nello stesso anno di Arancia meccanica (1962), Il seme
inquieto è un tassello fondamentale e profetico delle visioni,
perché di questo si tratta, di Anthony Burgess. L’azione si svolge
in un futuro dove l’esplosione demografica ha costretto le autorità
ad un rigidissimo controllo delle nascite e al razionamento dei cibi
e delle bevande. Tutto ciò in cambio di una stabilità geopolitica e
di un mondo senza eventi bellici. Una Londra cupa e cresciuta in
verticale, e almeno dal punto di vista architettonico non siamo
distanti da come in effetti si è sviluppata, è l’epicentro dell’azione fino a
quando la situazione non si ribalta: la fame non è un fenomeno che
le variabili politici possono controllare. Scoppia l’inevitabile
caos, tra disordini e cannibalismo, orge e manovre di palazzo fino a
quando, in cerca di un nuovo ordine (che, si suppone, deve essere
mondiale) si giunge alla creazione di rudimentali milizie, poi di un
esercito, di più eserciti i cui destini sono chiarissimi: “Un
esercito, essendo in primo luogo un’organizzazione votata
all'omicidio di massa, non può certo farsi condizionare da scrupoli
etici. Deve tenere sgombre le arterie stradali per garantire il
traffico, sangue della nazione; tutelare i rifornimenti idrici;
mantener bene illuminate le vie principali: strade secondarie e
vicoli dovranno arrangiarsi. Nessun dubbio, niente domande”. Sono
invece tantissime le questioni che il crescendo, a tratti barocco,
con cui Anthony Burgess delinea Il seme inquieto lascia sul
terreno, oggi più attuali di quarant'anni fa, proprio a partire
dalla natura dell’esercito che è la causa, non l’effetto come i
libri di storia vorrebbero insegnarci: “Di qui a poco saranno in
tanti ad aver paura, amico, e tu fra loro, oserei dire. Ma è ovvio
che ci sarà una guerra. Non perché qualcuno la voglia,
naturalmente, ma perché c'è un esercito. Un esercito qua e un
esercito là ed eserciti a destra e a manca. Gli eserciti sono fatti
per la guerra e la guerra è fatta per gli eserciti. Mica ci vuol
tanto a capirlo”. Quello che Il seme inquieto comprende e
illustra, comincia da un’acuta rivisitazione dei temi orwelliani:
il potere politico che resiste ad ogni ribaltamento di fronte, i temi
dell’esplosione demografica e quelli conseguenti dello sfruttamento
delle risorse e degli sviluppi urbanistici, il controllo
dell'informazione e, infine, la guerra che aleggia sempre (anche
oggi, purtroppo) come una soluzione: “La guerra come grande
afrodisiaco, copiosa fonte di adrenalina per il mondo intero,
soluzione al tedio, all’Angst, alla malinconia, all'accidia, allo
spleen? La guerra come immenso atto sessuale culminante in una
detumescenza che non era una morte soltanto metaforica? La guerra,
infine, come suprema regolatrice, ordinatrice, eliminatrice,
giustificatrice della fecondità?”. Allucinante e incontrollabile nel
1962, inquietante (per la sua attualità) oggi, Il seme inquieto
sarà ancora un punto di riferimento tra quarant'anni e questo è un
destino che spetta soltanto ai capolavori.
lunedì 23 ottobre 2017
Robert McLiam Wilson

domenica 22 ottobre 2017
George Perec
Per
un grande narratore come George Perec anche un libro fatto
essenzialmente di appunti, idee, piccoli progetti, diventa
un’occasione importante per riflettere, per lasciare un graffio,
per indicare una direzione. Il canovaccio è offerto dalla
contemplazione, non ovvia, non banale, della città e dei luoghi che
occupiamo dove “lo spazio sembra essere, o più addomesticato, o
più inoffensivo del tempo: s’incontrano dappertutto persone con un
orologio, e solo molto di rado persone con una bussola. Si ha sempre
bisogno di conoscere l'ora (e chi sa ancora dedurla dalla posizione
del sole?) ma non ci si chiede mai dove si trovi. Si crede di
saperlo: si è in casa, si è in ufficio, si è nel metro, si è in
strada. E’ evidente, certo, ma è così evidente? Eppure, di tanto
in tanto, bisognerebbe chiedersi dove si sia (arrivati): fare il
punto: non solo sui propri stati d'animo, la propria salute, le
proprie ambizioni, credenze e ragioni d'essere, ma semplicemente
sulla propria posizione topografica, e non tanto rispetto agli assi
sopraccitati, ma piuttosto rispetto a un luogo o a un essere al quale
si pensa, o al quale ci si metterà così a pensare”. Una sorta di
estrapolazione dei significati della/dalla quotidianità, quasi un
tentativo di fotografarne lo scorrere senza soluzione di continuità:
“I miei spazi sono fragili: il tempo li consumerà, li distruggerà:
niente somiglierà più a quel che era, i miei ricordi mi tradiranno,
l’oblio s’infiltrerà nella mia memoria, guarderò senza
riconoscerle alcune foto ingiallite dal bordo tutto strappato”. La
vena sottile, ironica, e leggera come Italo Calvino ha insegnato, non
impedisce a George Perec di affrontare in modo limpido, diretto tutte
le problematiche relative a ogni luogo in cui viviamo, dalle camere
delle nostre abitazioni alla città (“Mai potremo spiegare o
giustificare la città. La città è qui. E’ il nostro spazio e non
ne possediamo altro. Siamo nati in città. Siamo cresciuti in città.
E’ in città che respiriamo. Quando prendiamo il treno, è per
andare da una città all'altra. Non c'è niente di inumano in una
città tranne la nostra umanità”), dalla strada alle trincee (“Si
è combattuto per minuscoli frammenti di spazio, per pezzi di
collina, qualche metro di lungomare, qualche picco roccioso, l'angolo
di una strada. Per milioni di uomini, la morte è arrivata per una
minima differenza di livello tra due punti che a volte distavano meno
di cento metri: si combatteva per intere settimane per prendere o
riprendere quota 532”) fino allo spazio per eccellenza, la pagina,
la pagina bianca, la carta dell’oceano di Lewis Carroll senza una
virgola. Puro nulla e, non a caso, è proprio qui che il libro di
George Perec comincia, perché “Scrivere: cercare meticolosamente
di trattenere qualcosa, di far sopravvivere qualcosa: strappare
qualche briciola precisa al vuoto che si scava, lasciare, da qualche
parte, un solco, una traccia, un marchio o qualche segno”. E’
anche la conclusione della cartografia di Specie di spazi,
stramba ed eccentrica finché si vuole, ma efficace.
sabato 21 ottobre 2017
Carlos Franz

venerdì 20 ottobre 2017
Jonathan Coe

giovedì 19 ottobre 2017
Horacio Verbitsky

mercoledì 18 ottobre 2017
Amitav Ghosh
Il
mondo così com’è oggi raccontato da un osservatore che ha un
rapporto privilegiato con la scrittura e che riesce a mantenersi
lucido e sicuro anche quando si trova nell’occhio di ciclone delle
tempeste della storia. Ad Amitav Ghosh è capitato spesso, non tanto
per vocazione o per andare in caccia di quell’adrenalina che è il
sangue e l’anima di ogni reporter di guerra, quanto piuttosto
perché il conflitto sembra essere averlo inseguito per gran parte
della sua vita. Lasciatosi alle spalle l’India (che qui viene
raccontata in tutte le variazioni delle sue guerre, interne ed
esterne) si è ritrovato a vivere a New York proprio poco prima degli
attacchi apocalittici al World Trade Center e dopo aver conosciuto
tutto un catalogo di orrori e di disperazione in Cambogia, in
Birmania e ancora altrove. Questa simbiosi con il conflitto non gli
ha impedito però di perdere la lucidità e di mantenersi in
equilibrio anche in mezzo alla paura e al disorientamento. E’ uno
dei pochi intellettuali dei nostri tempi ad avere avuto il coraggio
di scrivere: “La religione, la razza, l'etnia e la lingua non hanno
alcun contenuto reale. Servono unicamente come linee di demarcazione.
L'odierno contenuto dell’ideologia, qualunque vesta assuma,
religiosa, linguistica o etnica, è lo stesso in tutti i paesi, anche
se può variare l'articolazione simbolica”. Radunando gli articoli
apparsi nell'arco di più di vent'anni, Circostanze incendiare
diventa qualcosa di più: una complessa e insieme scorrevole analisi
del mondo in cui viviamo e il faticoso arrancare di ogni narratore
per raccontarlo perché, come tra il saggio e l'amaro scrive Amitav
Ghosh, “è quando pensiamo al mondo che l'estetica
dell'indifferenza potrebbe generare, che riconosciamo l'urgenza di
ricordare storie di cui non abbiamo scritto”. Forse è l’esigenza
di aggrapparsi in continuazione alle storie a permettere a Amitav
Ghosh di mantenere la posizione, il punto anche in un frammento di
carta geografica. Comunque, la sua fiducia nella lettura (“I libri
marciscono se nessuno li legge”), nei legami tra luoghi e narrativa
(“E’ questo dunque lo specifico paradosso del romanzo: chi ama i
romanzi spesso li legge per il modo eloquente con cui comunicano il
senso del luogo. Ma la verità è che proprio la perdita di un senso
del luogo ne permette la rappresentazione narrativa”) non gli
impediscono di cogliere fino in fondo i limiti impliciti e il più
delle volte insondabili della letteratura di fronte all’apocalisse
quotidiana: “Noi che scriviamo fiction, anche quando ci riferiamo a
temi di rilevanza pubblica, non abbiamo scelta (e non importa quanto
i nostri romanzi siano sdolcinati o stravaganti) se non quella di
raccontare i fatti filtrati attraverso la nostra personalità. Il
nostro approccio agli eventi, anche i più generali, è
inevitabilmente limitato, basato e focalizzato su dettagli e
particolari. Di qualunque fatto si scriva, si finirà necessariamente
per trascurare il contesto politico”. Misurarsi con un fallimento
indispensabile (“Se c’è qualcosa di istruttivo
nell’attuale disordine del mondo, è senza dubbio questo: che poche
idee sono pericolose quanto la convinzione che ogni mezzo sia
consentito in funzione di un fine auspicabile”) è l’unico modo
per vedere come viviamo oggi anche perché, come scrive lapidario e
acutissimo Amitav Ghosh, “in un mondo di esseri umani anche la
sconfitta è una transazione”. Nell’era del mercato unico e
assoluto dio, la letteratura non sarà la salvezza, ma uno dei modi,
forse l’ultimo, per accorgersi che l’incendio è nato nelle
parole e lì finirà in un’inutile cacofonia, che poi, per chi
scrive e per chi legge, è la vera fine del mondo.
Iscriviti a:
Post (Atom)