Ci sono le canzoni dei Beatles e quelle di Roy Orbison in sottofondo all’Ultimo giro di Vince, Ray, Lenny, Vic e Jack. Quest’ultimo, dopo aver fatto il macellaio per tutta la vita, ha chiesto agli altri quattro di spargere le sue ceneri sul mare. Legati da un intreccio di rapporti, conoscenze, storie in comune e un lunghissimo elenco di pinte bevute insieme il sabato pomeriggio, Vince, Ray, Lenny e Vic si avviano con le ceneri di Jack in una scatola e il tono dell’Ultimo giro è dettato già dalla partenza: “E ci sentiamo tutti nello stesso modo, con il sole che splende, la birra che abbiamo bevuto, il viaggio che ci aspetta: come se fosse una cosa che Jack ha fatto per noi, per farci sentire speciali, per farci un regalo. Sembra un gita, una giornata di baldoria, e il mondo sembra bello, sembra lì solo per noi”. Il viaggio non ha particolari valenze simboliche ed è soltanto una trasferta di qualche chilometro dentro la campagna inglese, ma è quanto basta perché ognuno di loro cominci a riflettere, scovando rimpianti, ricordi e, per qualcuno, scampoli di futuro, perché “non si può ricordarne uno senza ricordare gli altri. E ricordando gli altri non si può non dedicare un pensiero anche a quelli che non hai mai conosciuto. È la cosa che rende tutti gli uomini uguali, sempre e in eterno. C’è un solo mare”. Tutto si svolge nella Mercedes di Vince o nelle brevi soste (dove la birra non manca mai, nutrendo l’impressione che si tratti, a tutti, gli effetti di un lubrificante del linguaggio) in un’atmosfera surreale, come se tutti fossero in procinto di dire qualcosa che non possono o non vogliono dire. L’Ultimo giro si risolve così in una sorta di coro di frasi non dette, emozioni non confessate, pensieri che entrano in feedback: la morte di Jack sembra aver liberato tensioni che duravano da decenni e messo a nudo le miserie e i sogni di tutti, che coincidono perché come dice Ray, o meglio Lucky, “i sogni sono sempre patetici”. È proprio Ray la guida dell’Ultimo giro: tra tanti falliti, è il più dotato intellettualmente, ma ha visto andarsene prima la figlia e poi la moglie e si è consumato in un anonima occupazione d’ufficio, sapendo che “il lavoro che fai e la vita che vivi nella tua testa sono due cose diverse”. Unica alternativa le scommesse, in cui è insuperabile, grazie anche ad alcune regole infallibili. La seconda dice semplicemente: “Non è scommettere, è sapere quando è meglio di no”. Sarà anche una metafisica della vita, ma Ultimo giro suona reale, toccante e vero come se Vince, Ray, Lenny, Vic e Jack li conoscessimo almeno quanto le canzoni dei Beatles e di Roy Orbison che aleggiano in tutto il romanzo. A maggior ragione, se si pensa a quello che Graham Swift, un autore che oltre a uno stile elegante, ha anche il merito di una discrezione non comune, disse in un’intervista di qualche anno fa: “Il mio cuore è sempre con tutti i miei personaggi anche quando sono in opposizione tra loro. Forse è questo il motivo per cui è possibile vedere in ciò che scrivo, in molte coppie di personaggi, un senso di appartenenza reciproca anche quando sono su opposte posizioni”. In Ultimo giro, dove i personaggi sono perennemente in contrasto, Graham Swift arriva al toccare i nervi scoperti della scrittura, della narrativa e del senso che devono avere, che è poi quello di un’eterna scommessa nell’interpretare la vita e le sue contraddizioni. “Si tratta sempre di probabilità”, come direbbe l’ineffabile Ray, ma con Ultimo giro, Graham Swift ha fatto il colpo grosso: ha puntato sui perdenti, e si è portato via tutta la posta in gioco.
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