Ha molte ragioni Lloyd Bradley nel definire “un’avventura” la sua certosina ricostruzione della musica giamaicana. Un lavoro che riesce a rendere visibile e tangibile i complessi intrecci che legano in un solo, denso tessuto vita e musica giamaicana. Una panoramica completa che è nello stesso tempo attenta al più piccolo dettaglio, così come a una visione globale dove la musica ha una parte fondamentale, senza dubbio, ma viene letta e sentita come un pezzo di tutta la storia, e non l’unico. Prince Buster rende bene l’idea dell’impostazione di Bass Culture nella sua prefazione: “La musica giamaicana è sempre stata una vera musica popolare, ma quando hanno raccontato la sua storia l’hanno presentata di rado come la storia di un intero popolo, una storia che facesse capire che le persone dotate di talento erano state influenzate dal popolo prima di entrare in studio o di prendere in mano un microfono durante una serata. Troppo spesso hanno raccontato soltanto metà della storia, e lo sfondo, i sommovimenti e i mutamenti vissuti dall’isola prima e dopo l’indipendenza finiscono dimenticati sotto una valanga di musica”. Con Lloyd Bradley non succede perché lo sviluppo della sua “avventura” parte dalle strade polverose di Kingston e arriva ad “alcune parti di Londra che mi ero dimenticato perfino esistessero”, come ammette lui stesso, sempre alla ricerca di tracce di un’evoluzione musicale sorprendente e che ha influenzato molta della musica moderna, compresi punk e hip hop. La svolta storica, se non altro la presa di coscienza della forza della musica giamaicana a livello internazionale, avviene attorno alla figura di Bob Marley a cui Lloyd Bradley si accosta senza enfasi e con molta cautela. Questo anche perché “sin dal primo giorno il reggae si è dimostrato abbastanza fluido e flessibile da inglobare un numero apparentemente infinito di sottostili, risolvendo in questo modo il problema della noia sia dei musicisti sia nelle più esigenti piste da ballo” ed era nella sua natura trasformarsi in continuazione, diventando davvero una cultura, un linguaggio a parte. Lo dice anche Jimmy Cliff: “Nei Caraibi la musica ha sempre parlato della gente, è sempre servita a comunicare come si sentiva. È verissimo quando dicono che è un po’ il giornale del ghetto. Il calypso e il mento erano quello, lo ska e il rocksteady illustrano il periodo dei rude boyes. Il reggae celebrava l’indipendenza e l’ottimismo di quell’epoca, poi il movimento rasta e la musica roots hanno portato allo scoperto il malcontento. Come oggi, quando il dancehall reggae riflette direttamente l’umore della gente. Che tu lo ritenga positivo o meno”. Aggiornatissimo, pieno di suggerimenti discografici e bibliografici (tra va segnalato almeno Rasta Revolution di Horace Campbell,), Bass Culture è, poco più, poco meno, la bibbia della musica giamaicana e un libro che racconta, più e meglio di molti altri, quanto può essere importante la musica nella storia complessiva di un popolo, di una nazione o di un intero mondo.
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