Al giro di boa della prima metà del diciannovesimo secolo, con la repressione dei moti del 1848 ancora nell’aria, le vocazioni libertarie erano costrette all’angolo dalla crescente omologazione delle istituzioni e della loro forza che il protagonista di Istante propizio, 1855 riassume così: “Gli idoli hanno decine, centinaia di nomi; il più sincero di tutti è Che dirà la gente? Hanno decine, centinaia di nomi, ma un solo desiderio: abbattervi, distruggervi, eliminarvi, annientarvi, trasformarvi in un nulla”. È uno dei numerosi passaggi della lettera con cui Bruno, che sarà l’ideologo della colonia indipendente di Fraternitas, racconta all’amata Elisabetta cosa è successo. La corrispondenza è del 1902 e Patrik Ourednik la utilizza un po’ come pretesto introduttivo e in gran parte per svelare il background intellettuale di una socialità fondata su basi egalitarie, partendo dalla convinzione (tra le tante) che “la scienza e la filosofia non possono condurre alla libertà. La libertà è frutto della passione, non della ragione; la passione è un dono della natura, non della civiltà. La libertà nasce dalla nostra innocenza, che la scienza ci ha tolto”. Con queste premesse nasce l’idea di fondare un’enclave lontana dalle burocrazie e dalle liturgie europee e volontari e volontarie si radunano per partire verso il Brasile dove è stata acquistata un’area destinata a diventare Fraternitas. Il lungo viaggio è già sintomatico dei limiti e dei difetti impliciti al progetto: dubbi, contrasti, litigi e conflitti fermentano già durante la navigazione, infiammati dalle aspre condizioni della traversata, dalle differenze linguistiche, dalle diverse aspirazioni e dalle distanze politiche, per poi esplodere una volta arrivati. “Le fondamenta di una civiltà” sono difficili da solidificare e ben presto la dialettica di Fraternitas è travolta dalle diatribe che nascono ogni sacrosanto giorno per i più disparati motivi: dal confronto con gli “indiani” e i “negri” agli effetti delle “copulazioni non pianificate”, dalla pigrizia all’alcol, dai furti allo scontro con le autorità, la terra promessa si sgretola da sola, quasi per inerzia. Tra i tanti paradossi del fallimento, non va dimenticato che l’accordo per prendere possesso della colonia brasiliana era stato concluso con un sovrano per poi essere rinegoziato con le neonate istituzioni repubblicane. Ispirato alla figura dell’agronomo (e anarchico) italiano Giovanni Rossi, che fondò la comune La Cecilia, con Istante propizio, 1855 Patrik Ourednik racconta in prima persona le prospettive di una “rivoluzione” attraverso le singole vicende umane, i turbamenti e le idiosincrasie, dal punto di vista del suo protagonista, che non manca di ricordare come “talvolta nel cuore della notte”, soccomba “a un sogno folle: che un giorno gli uomini non abbiano più bisogno di parole e pervengano a uno scambio retto dalla sola virtù dello sguardo, nell’amore e nella grazia infiniti, con la reciproca comprensione che si addice agli esseri liberi”. La forma del diario lascia libero Patrik Ourednik di interpretarne i pensieri, di collocare in filigrana la storia (incompiuta) di Bruno ed Elisabetta, di suggerire che (senza dubbio) “un uomo libero è un uomo pericoloso”, ma soprattutto di mettere in risalto la congenita fragilità di Fraternitas. Come argomentava Fredric Jameson in Il desiderio chiamato utopia, non possono reggere “aspettative troppo ottimistiche come se offrissero visioni di mondi felici, spazi di collaborazione e appagamento, immagini queste che corrispondono al genere dell’idillio e della pastorale”. La distinzione è fin troppo precisa e Istante propizio, 1855 non fa altro che svolgerla in una misurata ed elegante tela narrativa, lasciando intendere che, a saldo delle buone intenzioni e delle validissime idee, in fondo “la libertà deve dare conto di ciò che la rende possibile”. È utile ricordarlo, anche a distanza di un paio di secoli.
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