È un momento storico per la musica. L’involuzione dell’industria discografica e dello stardom system da una parte, e la continua rincorsa all’evoluzione tecnologica dall’altra, hanno portato ad un radicale cambiamento del consumo della musica. I due aspetti sono complementari: dall’apparizione del compact disc, il mercato discografico è sceso in picchiata e neppure il proliferare di nuovi supporti è stato in grado di evitare un fallimento epocale. Per inciso, ricerche di alcune università americane, indicano nell’incapacità degli attuati A&R (Artist & Repertoire, quelli che scelgono la musica da produrre e da vendere, nella sostanza) gran parte della responsabilità del disastro. Noi è almeno dieci (se non di più) che lo diciamo, ma a questo punto c’è una componente più importante da far emergere e questi Scritti sulla musica popolare di Béla Bartòk arrivano all’appuntamento con una puntualità e un’attualità sorprendenti. Compositore, ricercatore, viaggiatore e antropologo, Béla Bartòk illustra nei Scritti sulla musica popolare metodologie ed esperienze sul campo, aneddoti e consigli su come cogliere “una certa semplicità primordiale, ideale, priva di scorie” con cui identificare la musica popolare. Un processo per niente facile perché “la musica popolare è come un essere vivente che cambia di minuto in minuto, tanto è vero che i capitoli centrali degli Scritti sulla musica popolare (dedicati essenzialmente alla musica popolare mitteleuropea e balcanica) riescono appassionanti anche per chi etnomusicologo o antropologo non è. Anche perché la conclusione è la chiave di volta per la comprensione dei cambiamenti legati ai consumi musicali perché secondo Béla Bartòk la musica popolare non è “un’arte individuale ma una vera e propria manifestazione collettiva”. È un capitolo delle appendici quello che si snoda attorno a questa constatazione e che ci riguarda da vicino. Si chiama Musica meccanizzata e fuggendo linguaggi universitari o intellettualoidi va subito al cuore del problema. Da una parte è (il problema) industriale perché scrive: “Con vero rincrescimento, però, dobbiamo constatare che le case discografiche, preoccupate assi più di guadagnare che si assolvere a degli impegni di cultura, non pensano affatto a soddisfare le esigenze di studio che si sono dette”, ed era il 1930 o giù di lì, segno che la crisi degli A&R scoperta soltanto oggi da bravi studiosi americani è una bella scoperta, ma del tutto relativa. Il problema è che, se è meccanizzata, come dice Béla Bartòk, la costruzione e la gestione della musica, oggi come ieri sembrava diventato meccanizzato anche l’ascolto: “Io creo che, per molte persone, anche la trasmissione di musica seria sia soltanto una specie di carezzevole bagno tiepido, una specie di musica da caffè, un piacevole brusio di fondo, fatto per rendere meno noioso ciò che si sta facendo. Senza contare, poi, che probabilmente una buona parte delle persone che ascoltano la musica alla radio, si abitua a timbri deformati e perde la sensibilità per quelli autentici, giungendo magari al punto di non amare più il suono naturale della musica”. Non è necessario essere degli esteti per capire che le intuizioni di Béla Bartòk toccano tasti reali e dolenti. La musica, così come la letteratura, il cinema o ogni altra forma di comunicazione, ha bisogno di un pubblico che non sia casuale. Purtroppo, quello che è stato generato dall’industria dello spettacolo degli ultima anni, tra videoclip e spot, è un consumatore talmente distratto che ormai la musica la vuole (soltanto) gratis. È ovvio, nessuno pagherebbe mai per annoiarsi.
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