martedì 15 gennaio 2019

Simon Reynolds

Per approfondire la tesi centrale, ribadita più volte da Simon Reynolds nel corso di Post-Punk 1978-1984, ci vorrebbero quattro o cinque pagine intere, e forse non basterebbero. L’idea, per niente banale e che qua e là era già affiorata, è che il punk non sia stata una vera e propria rivoluzione, nonostante il “no future” dei Sex Pistols e il “no Elvis o Rolling Stones nel 1977” dei Clash, ma piuttosto la prosecuzione in altre forme e colori del primordiale rock’n’roll. Una sorta di ritorno a casa, piuttosto che un’apocalisse. In gran parte è vero, soprattutto se si guarda dove e come sono cresciuti i germogli: i Ramones si ispiravano in tutto e per tutto agli anni Cinquanta e a Nuggets e le New York Dolls ripescavano Bo Diddley (soprattutto) e Chuck Berry e anche le radici degli stessi Clash, come sarà evidente da London Calling in poi, affondavano nella musica afroamericana e caraibica. È tutto quello che è venuto dopo, dai Joy Division ai Devo, dai Pere Ubu ai Gang of Four che sembra, almeno nella prospettiva di Simon Reynolds, radicalmente innovativo, come afferma lui stesso: “L’aspetto del post-punk che più merita di essere ripescato sembra essere la sua tensione al cambiamento. Un’impostazione espressa tanto nella convinzione che la musica dovesse guardare sempre avanti, quanto nella fiducia che la musica potesse trasformare il mondo, fosse anche alternando le percezioni di un singolo individuo o allargandone il senso delle possibilità”. La musica, nell’arco di tempo ben preciso che va dal 1978 al 1984 (a cui però bisogna aggiungere una breve postilla dedicata a Mtv che, spogliando di tutte le velleità artistiche le intuizioni visuali del post-punk, le trasformò in quello che sappiamo: un grande vuoto), sembra un elemento centrale, ma è solo il più immediato, istintivo e rapido. Intorno ad essa si era sviluppata tutta una tensione artistica e sociale che comprendeva grafica, architettura, cinematografia, lo stesso giornalismo specializzato e persino il marketing che trovò nell’autoproduzione e nelle prime etichette indipendenti il terreno fertile per esperimenti e deviazioni dai percorsi ufficiali. La ricognizione di Simon Reynolds è ricca, dettagliata, infarcita di episodi concreti, aneddoti e moltissime testimonianze dirette che, in un giro delle periferie urbane di mezzo mondo, l’humus ideale per qualsiasi artista, ricostruisce un periodo tormentato, fertile, ma anche vagamente inconcludente perché come spiega con una certa innocenza ma anche con grande sincerità Jean Michel Basquiat, i protagonisti di Post-Punk 1978-1984 sono “incompleti, abrasivi, di una bellezza stravagante”. Lo stesso Simon Reynolds, giunto in fondo alle settecento pagine del libro (che si legge come un romanzo) si chiede con grande onestà e altrettanta lucidità: “L’idea del cambiamento nella musica, con la musica, era solo un passatempo? Non lo so, ma sarò eternamente grato a questo periodo per avermi consentito di pretendere così tanto dalla musica”. Forse è proprio questa la chiave di lettura di Post-Punk 1978-1984: potranno non piacervi i Public Image Limited o gli Echo & The Bunnymen, si può sorridere nel riscoprire spiccioli di stagione come gli ABC o gli Heaven 17 o nel ritrovare gli embrioni degli U2 o i curiosi esperimenti di Don Was, destinato a diventare uno dei produttori più inseriti e richiesti dell’intero music business, ma la passione che sgorga da queste pagine è qualcosa che non ci è sconosciuto. Per dirlo con un altro testimone dell’epoca, Daniel Miller: “Quello che ci univa era il fatto che nessuno di noi sapeva cosa stesse facendo! Amavamo la musica alla follia, però, e avevamo le idee chiare su cosa ci piaceva e cosa volevamo”. Alla fine, Post-Punk 1978-1984 non parla soltanto di un frammento temporale o di uno stile particolare, ma dell’illusione che la musica, rock’n’roll, punk o quello che, possa contare davvero qualcosa, anche se non sempre e necessariamente deve essere spacciata per una rivoluzione.

Nessun commento:

Posta un commento