mercoledì 23 gennaio 2019

Robert McLiam Wilson

Aveva poco più di trent’anni Robert McLiam Wilson quando dava seguito al brillante esordio di Ripley Bogle con Eureka Street. Ripley Bogle (che tra l’altro riappare nelle ultime pagine di Eureka Street) era la storia di un clochard intellettuale raccontata con uno stile ricchissimo eppure livido e crudo. Personaggi marginali, outsider senza speranza, baracche sulle rive del Tamigi: il lato oscuro della Londra sfavillante alla fine del ventesimo secolo. Per Eureka Street si sposa invece a Belfast (“un campo di battaglia”), sua città natale, dove inventa un gruppo di amici alle prese con lavori improbabili, l’amore (che va e viene, anche se l’incipit è lapidario: “Tutte le storie sono storie d’amore”), le birre, le sbronze e la fatica a uscire dal letto il giorno dopo, le settimane che si trascinano faticosamente e i week-end che finiscono sempre nello stesso modo. Nel gruppo si distinguono Jake, che assume anche il ruolo di alter ego di Robert McLiam Wilson, e Chuckie: il primo ha il pallino dell’intellettuale, ma fa il muratore; il secondo è un affarista nato e un amateur in procinto di diventare papà. Fino a metà romanzo, sebbene la guerra civile sia una costante in sottofondo, Eureka Street è una commedia degli equivoci, un susseguirsi di riflessioni più o meno ispirate sulla vita (Jake, per esempio: “Avevo già atteso altre volte nella mia vita e c’ero abituato, ma questa volta era diverso. Sembrava proprio che sarei rimasto ad aspettare per sempre. Abbiamo un’idea sbagliata del tempo: non è denaro, non è velocità”), un rincorrersi per le vie turbolente di Belfast, che è la vera anima del libro. Robert McLiam Wilson ripete l’exploit di Ripley Bogle confermandosi narratore di talento, capace di tessere storie che sono legate alla realtà, alla vita quotidiana, ma poi arrivato all’undicesimo capitolo, usa la scrittura come un bisturi e lo infila nella piaga. Senza avvertimenti, senza risparmiarsi: in una dozzina di pagine (sconsigliate ai deboli di stomaco) racconta la violenza dell’esplosione di una bomba in Fountain Street e, risolutamente, prende posizione. Da lì in poi Eureka Street è influenzato dalle conseguenze dell’attentato, il tono tende a essere più attento, certe rivelazioni vengono mostrate con più cura, le vite dei personaggi assumono altri significati. Le divisioni che la deflagrazione ha messo in risalto si ripercuotono per le vie di Belfast così come sulle consuetudini dei legami che Jake affronta così: “Come potete immaginare, ne avevo le palle piene di quelle discussioni, di quell’odio che assumeva maschere diverse ma in fondo era sempre lo stesso. Avevo già sentito mille volte quei discorsi, quegli argomenti, quelle parole. Sapevo già come sarebbe andata a finire ogni singola frase prima ancora che qualcuno la cominciasse. Era come sfogliare un vecchio quaderno ingiallito e pieno di orecchie”. L’equilibrio, molto delicato, tra il tono di una commedia agrodolce e la brutalità di Belfast regge fino in fondo e i risultati che raggiunge Eureka Street una volta giunti alla fine sono almeno due: a) conferma Robert McLiam Wilson nel ruolo di scrittore geniale e scomodo; b) smentisce e azzera tutte le voci che vorrebbero la letteratura (ma anche la musica, il cinema, e l’arte e la comunicazione in generale) al servizio dell’entertainment idiota e autoreferente che oggi è prassi comune.

Nessun commento:

Posta un commento