Considerato all’unanimità il capolavoro di Derek Raymond, Il mio nome era Dora Suarez è un romanzo duro, ostico, scomodo, ma anche liricissimo e tagliente, se quest’ultimo aggettivo non si prestasse a equivoci doppi sensi. Sicuramente è la storia più dolorosa e complessa che Derek Raymond è riuscito a trasporre nella sua narrativa. Non senza problemi, come ha ammesso lui stesso in un’intervista: “C’erano momenti in cui non riuscivo più a distinguere il male dentro di me da quello che creavo sulla pagina. La frontiera tra me stesso e quello che avevo evocato diventava sempre più indistinta”. Anche il confine fra giustizia e vendetta, più che negli altri romanzi di Derek Raymond, qui si fa più sottile, quasi impercettibile. Di motivi ce ne sono parecchi: Dora Suarez era bella, povera e tormentata e per la prima volta nella sua vita aveva trovato un po’ di affetto e di calore da Betty Cartstairs, un’anziana signora che l’aveva accolta come una figlia. Entrambe cadono sotto i colpi folli di un omicida che è un groviglio inaudito di ossessioni. Il serial killer di Seven, giusto per fare un paragone che conosciamo tutti molto bene, è soltanto un disadattato, al confronto. In più, lei si è portata via, fino alla fine, un ultimo scampolo di bellezza: “Quando morì, Dora era molto elegante. Si era appena lavata i capelli, e il vestito e le scarpe nere con il tacco che trovammo vicino ai suoi piedi erano nuovi di zecca. Si era preparata per un’occasione speciale. Stava per fare la sua uscita di scena e, come ha scritto Dylan Thomas, era vestita per morire”. Quel dettaglio riveste di una luce crepuscolare tutto il romanzo: il sergente della A14, personaggio ricorrente nei romanzi di Derek Raymond che è chiamato a risolvere è soltanto l’inizio di Il mio nome era Dora Suarez, non si è mai abituato a “vedere tutto quello che nessuno vede mai: la violenza, la sofferenza e la disperazione, l’incommensurabile lontananza della mente di un essere umano che, tra i suoi sogni e la sua morte, non conosce altro che il dolore”. Il duplice omicidio è soltanto l’inizio: da lì si dipana un mondo la cui miseria porta il sergente della A14 a chiedersi più volte perché, anche se sa che quella è l’ultima domanda che si fa prima di morire. A tutti gli effetti, si innamora di un’idea, ovvero della bellezza di Dora Suarez, e gli si aggrappa cercando un motivo per andare fino in fondo, sapendo che la soluzione del caso, trovare il colpevole e assicurarsi che sconti una pena adeguata, non basterà. Capiterà anche al lettore perché Derek Raymond non risparmia alcuna brutalità, pur lavorando sulla scrittura e sul linguaggio con una profondità che l’ha coinvolto in prima persona: “Per tutto il tempo che l’ho scritto, non sono stato capace di addormentarmi senza una luce accesa! È il romanzo nero come lo intendo io. È un po’ come se qualcuno facesse una passeggiata in un giardino pubblico una sera al crepuscolo e si imbattesse all’improvviso in qualcosa d’orribile che lo sgomenta fino al terrore. Allora, davanti allo schermo del computer, ala macchina, non resta che una sola cosa da fare: scrivere. Certo, non ci si può immergere a tal punto in una simile esperienza e uscirne incolume, come si era prima. Non esistono mezze misure”. Serva anche da avvertenza per il lettore: Il mio nome era Dora Suarez è un’esperienza che non lascia indifferenti.
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