Antesignano di molti racconti che sono poi seguiti, più acidi e meno intelligenti, La fabbrica delle vespe è un romanzo spiazzante, tagliente, sviluppatosi da un immaginario marginale, spietato e duro, che del rock’n’roll condivide il ritmo, l’elettricità, una certa visionarietà. La storia è tutta nel personaggio: Frank Cauldhame a diciassette anni praticamente non esiste. Il padre, uno pseudo hippie, non l’ha mai registrato all’anagrafe e la madre è ben presto scomparsa dopo la sua nascita. E siamo solo all’inizio. Il fratello Eric invece c’è, ma con una famiglia (per modo di dire) così entra ed esce dal manicomio, dando fuoco a tutto quello che trova sul suo cammino. L’infanzia di Frank, ormai giunto nei momenti cruciali dell’adolescenza, è stata una specie di incubo dentro la cornice delle coste scozzesi, dove vive con il padre in una casa che è palafitta o isola, a seconda dei punti di vista, e delle maree. Il clima (atmosferico e generale) non aiuta e lui, Frank, si presenta così: “Mi è capitato spesso di sentirmi come uno stato; una nazione, o forse una città. E i diversi sentimenti che certe volte ho provato nei confronti di idee, comportamenti e via dicendo erano almeno così mi pareva, come le varie tendenze politiche che si alternano in un paese. Ho sempre creduto che la gente votasse per un nuovo governo non perché ne condividesse effettivamente la politica ma solo per la voglia di cambiare. Il passaggio al nuovo comporta in qualche modo un miglioramento, ecco quello che pensano. Ebbene, la gente è stupida, e tutto questo sembrerebbe avere a che vedere più con il capriccio, l’atmosfera e gli stati d’animo del momento che non con argomentazioni seriamente meditate. È così che mi girano le cose per la testa. Certe volte mi vengono in mente pensieri e sentimenti che si contraddicono l’un l’altro. È per questo che ho raggiunto la conclusione che nel mio cervello devono esserci un sacco di persone diverse”. Per resistere alla pazzia che lo pervade, non meno di quella che lo circonda, Frank si è inventato una complessa serie di rituali, un conflitto perenne con la stragrande maggioranza delle creature viventi (esseri umani compresi) e dozzine di certezze maniacali, come l’ossessiva osservazione dei fenomeni naturali o meteorologici. Nonché, ovviamente, La fabbrica delle vespe: quando ne illustra il funzionamento, ricorda che “la nostra vita è tutta fatta di simboli. Ogni cosa che facciamo è parte di un disegno dove abbiamo comunque voce in capitolo. I forti stabiliscono i propri percorsi e influenzano quelli degli altri, i deboli ce li hanno già segnati. I deboli e gli sfortunati. E gli stupidi”. Con il passare del tempo, la sua follia diventa sempre più feroce, pur celata dietro una patina d’innocenza (ingenua non lo è mai stata) e La fabbrica delle vespe si contorce in una spirale psichedelica dove ruoli, posizioni, storie e vite si ribaltano lasciando il lettore pieno di dubbi, di ombre, di angoli nascosti. Va da sé che la fine non si può anticipare, ma, arrivati in fondo, bisogna aspettare un attimo e prendere fiato, perché Iain Banks, con una scrittura martellante, lineare, quasi schematica, non concede tregue e vi trascina in un posto dove qualsiasi luogo comune salta per aria. E non solo quello.
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