Regno a venire è un punto di non ritorno dell’esplorazione di quella “geografia di deprivazione sensoriale” che è la realtà suburbana postmoderna dei centri commerciali, degli snodi autostradali, delle aree per le logistiche e delle “periferie di nessun luogo” in genere (ammesso che da qualche parte esista ancora un centro che abbia un senso). James Graham Ballard si è dedicato a lungo a queste aree, che potrebbero essere nei dintorni di Londra come nel caso di Regno a venire (ma anche di Millenium People e, anni fa, nell’allucinato Il condominio) ma le cui contraddizioni sono identiche sulla Costa Azzurra (Super Cannes) o altrove (Cocaine Nights) e in altre definizioni o misure valgono anche per ogni altro angolo del mondo. Con Regno a venire però sembra aver sublimato tutti i romanzi che l’hanno preceduto sul tema (quelli citati qui sopra, ma non solo, perché per certi versi ci starebbe pure Crash) scrivendo il suo libro più duro, più politico visionario e mettendo insieme, nello stesso tempo, una delle sue opere più lucidamente inquietanti. L’antefatto e la trama potrebbero essere persino banali e adatti a un thriller di seconda o terza categoria: un anziano viene ucciso in un centro commerciale e il figlio, che conosceva molto poco il padre, nel tentativo di scoprire gli assassini scopre anche chi era il genitore e chi è lui. Sembra il compito della prima settimana di un corso di scrittura creativa, ma Ballard è straordinario nel reinventare i luoghi comuni e ben presto scopre che il Regno a venire del titolo è un incubo dove, dice uno dei suoi personaggi (e nemmeno il più a posto): “La politica è un caos e la democrazia è soltanto un servizio pubblico come il gas o la luce. Non c’è quasi nessuno che abbia un briciolo di senso civico. È il consumismo a darci la misura dei nostri valori. Il consumismo è sincero e ci insegna che ogni merce ha un codice a barre”. Il Metro-Centre, un mostruoso centro commerciale attorno a cui sembra ruotare tutta la vita (e la morte) di Regno a venire ha qualcosa di familiare perché l’abbiamo già visto da qualche parte, anche sulle nostre strade; l’imbonitore televisivo che svolta per la carriera politica (o viceversa), è un’esperienza della tarda civiltà occidentale che conosciamo molto bene e Ballard infila il dubbio che sia “un nuovo tipo di democrazia, si vota alla cassa invece che alle urne. Il consumismo è lo strumento migliore mai inventato per controllare le persone. Nuove fantasie, nuovi sogni, nuove antipatie, nuove anime da salvare. Per qualche strana ragione chiamiamo tutto questo shopping. Ma in realtà è la forma più pura di politica”: la violenza endemica negli stadi, nei confronti degli immigrati, nelle risse quotidiane per quelli che tutti chiamano futili motivi, nel neofascismo strisciante della volgarità e dell’indifferenza è solo un’eruzione cutanea di una patologia molto più complessa e devastante perché “l’economia procede lungo una pianura interminabile e in consumatori non ne possono più di quel panorama. Hanno bisogno di qualcosa di strano, che gli faccia sentire un brivido lungo la schiena”. E Ballard, giocando sul filo di un tesissimo noir, tra la denuncia sociale e quel sentore apocalittico che distingue gran parte della sua scrittura, mette il sigillo su un romanzo che, al pari di La strada di Cormac McCarthy (in altri modi e in un un altro mondo) ha aputo interpretare i nostri disgraziati “modern times”.
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