domenica 20 gennaio 2019

John Berger

Essendo la storia di una coppia, in Lillà e Bandiera è tutto doppio, specchio e riflesso. Essendo uno dei tre vertici della trilogia Into Their Labours dedicata da John Berger ai migranti d’Europa (gli altri sono Una volta in Europa, che è il capitolo fondamentale, e Le tre vite di Lucie, ma andrebbe ricordato per la naturale affinità anche Il settimo uomo, con le fotografie di Jean Mohr) tutto è tra due sponde, un punto di vista e il suo corrispondente, l’alto e il basso, il dentro e il fuori. Tante piccole storie che s’incastrano in un reticolo di sguardi, movimenti, incidenti e imprevisti ma che insieme costituiscono un mosaico rivelatorio perché, come spiegava, lo stesso John Berger in un’intervista “a me sembra che ogni storia che riguarda una vita non sia una piccola storia, non esistono piccole storie in quel senso. Quando provi a raccontare una storia devi fare contemporaneamente due cose, ed è quasi una contraddizione: perché devi avvicinarti il più possibile all’esperienza vissuta di quella storia, arrivarle molto vicino e nello stesso tempo devi cercare di mettere questa storia non sotto il cielo, ma in tutta la storia delle storie, e la storia umana comincia con le storie”. Del resto Lillà e Bandiera s’incontrano sulla porta di una prigione e tutte le loro passioni, così come le storie che gli rotolano incontro, sono sempre in mezzo ad un guado: Troia è una metropoli e nello stesso tempo un frammento del passato e “tutti hanno bisogno di tutti”, perché “adesso è notte, è da parecchio tempo che è notte”. Un’atmosfera crepuscolare attanaglia non solo Lillà e Bandiera, ma tutti i protagonisti che soffrono le ingiurie del tempo, la fatica di trovare un’altra ragione di speranza, il disorientamento di non essere né di qui né di lì che è poi la condizione ultima degli esiliati. Il lavoro, la famiglia, una casa, il pane quotidiano, ovvero i sogni di ogni migrante dovrebbero essere il collante umano, ma in Lillà e Bandiera (così come negli altri capitoli della trilogia) diventano prima un’ossessione e poi fonte di disperazione dato che la vita ai margini della città come della storia porta inevitabilmente nell’oscurità. C’è solo un attimo di pace, quando “la mattina presto, prima che molto sangue venga versato, prima che la spietatezza dei forti abbia raggiunto il suo apogeo, quando i nottambuli sono finalmente addormentati e liberi della loro tristezza, c'è un momento in cui il nuovo giorno sembra quasi innocente”, ma lo scarto è troppo breve e viene sempre il tempo di un’altra partenza, l’ultima. Resta soltanto l’appiglio estremo delle parole che “aggiungono e tolgono. Sia quelle che vengono dette sia quelle che ci ronzano in testa. Sono sempre inopportune, perché non vanno mai bene. Ecco perché le parole, fanno soffrire e offrono salvezza”. Il dualismo tra i protagonisti, tra uomo e donna, città e campagna, e tra potere e libertà è condensato proprio nelle parole, e rilanciato all’infinito da John Berger perché “con le parole tutto può accadere di nuovo, come la storia che vi sto raccontando, eppure le parole non cambiano mai ciò che è accaduto”. L’unico punto fermo, il polo che attira e respinge nello stesso stempo resta Troia: l’indefinita posizione geografica è voluta, essendo ovunque all’incrocio tra i mondi di chi parte per fuggire la miseria e di chi si nasconde nella ricchezza. Lirico, toccante, straordinariamente attuale.

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