Nell’Iran
attuale, Sudabeh è figlia di una famiglia benestante, che crede sia
giusto trovare per lei un marito allo stesso livello. I pensieri di
Subadeh però sono occupati da un altro amore, distante, per censo e
per formazione, dalle sue abitudini. Travolta dal tormento tra la
passione e l’intenzione di non deludere i genitori, la ragazza si
rivolge a una zia saggia e comprensiva, Mahbubeh, che l’accoglie
aprendo un vecchio scrigno di ricordi. “Quando sei innamorata lasci
che le cose vadano e vengano come vogliono, lasci che il mondo vada
sottosopra oppure no: che importanza ha?”, le dice la zia e a quel
punto è già chiaro che La scelta di Subadeh è solo il
prologo alla storia di Mahbubeh che, in un altro Iran, quello dello
Shah, ha vissuto pene e fatiche d’amore simili e parallele a quelle
della nipote. In un trionfo di giardini profumati, pranzi ricchi di
sapori, dialoghi coloriti e allegorici, Mahbubeh racconta come ha
schivato tutti i matrimoni combinati dalla famiglia, perché
innamorata di Rahim, il garzone del falegname del quartiere. La vita
con Rahim (e un’antipatica e invadente suocera) invece del
“paradiso in terra” si rivelerà impossibile (e brutale), tanto è
vero che, per Mahbubeh, il massimo della felicità “se di felicità
si può parlare, si manifestava con un sorriso amaro”. La
separazione tra i sogni a occhi aperti dell’infatuazione, la
passione della rivolta di Mahbubeh contro le imposizioni e la dura
realtà genera un corposo romanzo, dove i personaggi femminili
imperano in tutte le direzioni. Il senso del melodramma con cui
Fattaneh Haj Seyed Javadi sfoggia una scrittura florida e
affascinante non le impedisce di collocare La scelta di Mahbubeh
nel contesto delle trasformazioni e delle contraddizioni dell’Iran
del ventesimo secolo, consentendo al lettore di farsi trasportare
dalle atmosfere avvolgenti del romanzo perché poi, come dice
Nazanin, la madre di Mahbubeh, “la bellezza è negli occhi di chi
la possiede”. Non è l’unica iperbole: tutta La scelta di
Sudabeh è costellata di versi poetici, metafore, un florilegio
linguistico che riflette l’intensa tradizione della narrativa
dell’Iran, dove, come ha raccontato la stessa Fattaneh Haj Seyed
Javadi, “la letteratura è all’ordine del giorno e anche le
persone con un grado di istruzione relativo amano esprimersi
attraverso versi e proverbi”. I contrasti sono resi con un
meticoloso lavoro di intarsio attorno ai “legami di sangue” e
alle trame che coinvolgono famiglie e parentele, così come con
minuziosa descrizione della vita quotidiana in una cittadina
dell’Iran. Dalle colorite espressioni per descrivere lo svolgersi
delle stagioni al labirinto di dettagli di tradizioni, regole e
usanze, per non dire dei dialoghi forbiti e cesellati battuta per
battuta La scelta di Sudabeh è un fuoco d’artificio senza
fine che non nasconde, nelle pieghe dei tormenti di Mahbubeh, un
velo di nostalgia per altri tempi, quando erano “tutti felici,
ognuno a modo proprio, ognuno con i propri pensieri e i propri
desideri”. Un romanzo da scoprire lasciandosi guidare dalla mano
sicura di Fattaneh Haj Seyed Javadi in un panorama, sì, molto
diverso e distante, ma dove le scelte e i loro effetti pesano come in
ogni altra parte del mondo.
sabato 30 dicembre 2017
martedì 19 dicembre 2017
Dubravka Ugrešić

domenica 17 dicembre 2017
Ryszard Kapuściński
Dalle alture
del Golan alle foreste del Mozambico, dagli altipiani della Bolivia a
Beirut, dal Guatemala alla Giordania, Kapuściński affronta, vive,
racconta i movimenti di liberazione e d’indipendenza, le dittature
e i colpi di stato, i guerriglieri e i terroristi, le speranze e gli
incubi del mondo postcoloniale tra il 1969 e il 1974. Anche se ormai
risale a quasi quarant’anni fa (la somma di questi dieci reportage
risale al 1975) questo giro del mondo attraverso i conflitti dell’era
postcoloniale successiva alla seconda guerra mondiale, meritava di
essere riscoperto nella folta bibliografia di Kapuściński. Non
soltanto perché gran parte delle questioni territoriali, politiche e
militari che affrontò sono rimaste irrisolte (va da sé che le
pagine sul Medio Oriente sembrano scritte ieri): per quanto
attentissimo alle dinamiche locali e internazionali, alla formazione
della storia “dal basso”, Kapuściński è sempre stato capace di
irradiare dal suo lavoro sul campo una comprensione di carattere
universale sulla natura fallace dell’uomo e delle sue istituzioni.
Mentre racconta le tragedie della Bolivia nella corposa parte
centrale dedicata all’America Latina, Kapuściński non può fare a
meno di notare che gran parte dei problemi, se non tutti, derivano
dal cinismo e dal calcolo politico e scrive nei suoi dispacci da La
Paz: “Qualcuno ha saggiamente osservato che in politica non occorre
fare nulla: metà dei problemi è comunque irrisolvibile e l’altra
metà è destinata a risolversi da sola. L’essenziale in politica,
è sapere aspettare: il più bravo a farlo vince la partita”. In
quegli anni l’attesa era giusto tra un golpe e l’altro e i
politici si sovrapponevano ai militari e viceversa nel generare,
stagione dopo stagione, regimi che si nutrivano di terrore, di
silenzio, di complicità e di quel ribaltamento della realtà e della
morale che è la prima fonte di potere della tirannia perché “visto
che le colpe le espiano gli innocenti, uno può morire perché non ha
ucciso. In questo modo, quanto più uno è innocente, tanto più è
colpevole. Quindi, quanto più uno è innocente, tanto più ha
paura”. Kapuściński non sfugge agli elenchi dei massacri, delle
torture, delle sparizioni, delle liste di proscrizione, delle
connivenze e degli interessi, eppure continua a cercare il lato
umano, spiega fino in fondo che tra morire ribelli e morire innocenti
non c’è differenza. C’è una frase riferita al conflitto tra
palestinesi e Israele che vale per tutti: “Qui, infatti, non si
permette a nessuno di vivere tra le stelle. Qui ti trascinano sulla
terra perché tu veda il sangue seccarsi e senta esplodere le bombe”.
Leggendo Kapuściński sembra proprio che il suo sguardo sia partito
da lì, da qualche millimetro tra la polvere, come lascia intuire il
bellissimo, toccante finale. Piccola, ma urgente postilla: nel
raccontare la facilità con cui nell’America Latina di quegli anni
si poteva finire in una lista di nemici pubblici e poi finire
desaparecido, Kapuściński spiega che le dittature “considerano
comunista chiunque la pensi diversamente da loro o, più
semplicemente, chiunque pensi”.
Questa l’abbiamo già sentita, da qualche parte.
sabato 16 dicembre 2017
Ben Watt

venerdì 15 dicembre 2017
Panos Karnezis

giovedì 14 dicembre 2017
Ian McEwan

mercoledì 13 dicembre 2017
Levi Henriksen

martedì 12 dicembre 2017
Derek Raymond
E’
difficile fare il sergente alla A14 (che non è un’autostrada, ma
la sezione Casi Irrisolti della polizia di Chelsea) quando si ha una
moglie pazza ricoverata in un manicomio perché ha ucciso la figlia,
non si sopportano i propri superiori (“La mia non è mancanza di
rispetto, ma di pazienza. Il mio guaio è che non riesco a sopportare
gli idioti. Mi preoccupo della giustizia, non dei gradi”) ma
soprattutto, non si cerca la giustizia, ma la verità. Una sottile
distinzione che, in Aprile è il più crudele dei mesi, viene
sviscerata da Derek Raymond con un’aderenza totale al suo
protagonista: il noir non è inteso soltanto come ambientazione,
atmosfera, stile o genere, ma è proprio un modo per vedere la vita,
o il dramma della vita. “Dove vado io, là vanno i fantasmi. Io
vado là dove si trova il male”, dice il tormentato sergente della
A14 ed è un riflesso spontaneo che si traduce in quello che sostiene
lo stesso Derek Raymond ovvero che “la funzione del romanzo noir è
di impedire alle persone di dimenticare l'orrore che regna”. Questa
dura e nobile definizione (è uno sporco lavoro, ma qualcuno lo deve
pur fare) trova una sua logica in Aprile è il più crudele dei
mesi. Al nostro sergente della A14 viene recapitato un caso che
comincia da quello che rimane di un cadavere: cinque sacchetti di
plastica che contengono, adeguatamente sezionato e bollito, un corpo
umano. La prima reazione è, a sua volta, un tentativo di individuare
un senso, difficile se non impossibile da trovare davanti a quello
scempio: “Cominciai a immedesimarmi nell’assassino. Pensavo: sono
pazzo. Sì, ma dobbiamo tutti sforzarci di sembrare normali”. Da
quel macabro ritrovamento si dipana un intreccio che comprende
malavitosi della peggior specie, agenti segreti e doppiogiochisti di
professione, politici corrotti e tutta una fauna ambigua che è
sempre pronta a tirare il grilletto. Dal canto suo, Derek Raymond non
spreca una riga, una parola. I personaggi sono chiari, evidenti, dai
contorni netti e precisi, a partire dall’autoritratto del sergente
dell’A14: “Le mie indagini le conduco a modo mio, è il grande
vantaggio di lavorare da solo. E se la cosa non garba ai miei
superiori, possono pure cacciarmi. Probabilmente l’avrebbero già
fatto, solo che non sono così facile da rimpiazzare”. I dialoghi
hanno la forza bruciante di chi sa gestire la scrittura con
naturalezza (“Perché te la stai prendendo come me? Perché hai
abitudini pericolose e sei stato dentro per omicidio. Hai strangolato
un uomo, e ti sto controllando com’è prassi, ma anche perché la
tua faccia potrebbe essere proprio il pezzo mancante del puzzle di
una nuova indagine che sto svolgendo”) e senza tanti patemi
stilistici. La storia è una rete infinita di intrighi dove le
psicologie sono determinanti almeno quanto i paesaggi perché Londra
e i sobborghi sono (come in tutti i suoi romanzi) uno scenario
perfetto e tenebroso. Aprile è il più crudele dei mesi è un
ottimo biglietto da visita per un autore che ha il merito di aver
elevato il noir, o di essersi abbassato fino a sporcarsi le mani: in
entrambi i casi, un bel coraggio.
sabato 9 dicembre 2017
John Berger
Le
ultime annotazioni di John Berger sono un lascito importante che
riflettono fino in fondo la sua natura di meraviglioso outsider. Si
tratta di frammenti scritti tra il 2014 e il 2016: brevi, efficaci,
lucidissimi. Con grande naturalezza e semplice eleganza John Berger
ritorna su temi che gli sono particolarmente cari: la scrittura
(“Scrivere è per me un’attività vitale, mi aiuta a orientarmi e
ad andare avanti. La scrittura, tuttavia, germoglia da qualcosa di
più profondo e di più generale: il nostro rapporto con la lingua in
quanto tale”), la politica (“Oggi la tirannia globale del
capitalismo finanziario speculativo, che usa i governi come propri
negrieri, e i media mondiali come spacciatori di droga, questa
tirannia il cui unico obiettivo è il profitto e l’accumulazione
incessante, ci impone una visione e un modello di vita convulsi,
precari, implacabili, inesplicabili”) e le sue vacue espressioni
(“Il discorso politico che oggi va per la maggiore è composto di
parole che, separate da una qualsiasi creatura-lingua, sono inerti e
sterili. Tale propaganda verbale priva di vita spazza via la memoria
e genera un feroce autocompiacimento”), l’osservazione (“La
soddisfazione di identificare un uccello vivente mentre vola sopra di
noi, o scompare in una siepe, è strana, non è vero? Comporta una
bizzarra intimità momentanea, come se nell’istante in cui lo
riconosciamo apostrofassimo l’uccello, malgrado il frastuono e la
confusione di innumerevoli altri eventi, chiamandolo proprio con il
suo particolare nomignolo”) e poi l’arte. Il ritratto di Charlie
Chaplin e quello di Michael Quanne, gli schizzi e le improvvisazioni
riportano sempre all’idea centrale di “un certo ideale di
indocile felicità, un ideale che si fonda su una memoria condivisa,
in parte frutto di invenzione, in parte reale, di estati infantili,
sole, acqua e giornate che non finiscono mai”. In questo senso è
molto bello ed emblematico l’intero capitolo dedicato alla forma
della canzone, un’espressione ricca ed eloquente della natura delle
osservazioni di John Berger che cita, tra gli altri, Bessie Smith,
Johnny Cash, Woody Guthrie e Fabrizio De Andrè, prima, e Tom Waits,
dopo. John Berger è prodigo di suggerimenti e suggestioni e se, come
un fiume carsico, una certa vena polemica affiora di volta in volta
(“Oggi quel che fa girare il mondo è la prossima acquisizione
immediata: il prossimo accordo e prestito per la finanza, il prossimo
acquisto per i consumatori. Qualsiasi idea di storia che colleghi
passato e futuro è stata messa ai margini se non eliminata. E così
soffriamo di un senso di solitudine storica”) per poi sparire,
quello che cerca davvero è “una tolleranza per gli amori
impacciati, l’ineleganza, le occasioni mancate, le schiene
lentigginose, i mormorii equivoci, i capelli sudati, i piedi
accaldati: la vita così come è”. Ecco, Confabulazioni è
proprio John Berger, anche nell’intima riflessione che lo spinge a
confessare: che è stato spinto a scrivere dalla “sensazione che ci
sia qualcosa che va raccontato e che rischia, se io non provo a
farlo, di non essere raccontato. Mi vedo più come un tappabuchi che
come un influente scrittore di professione”. Una lezione (più di
una) da non dimenticare.
sabato 2 dicembre 2017
Enrique Vila-Matas

venerdì 1 dicembre 2017
Jenni Fagan

venerdì 24 novembre 2017
Vikram Seth
Colpito al cuore dalle liriche di Puškin, Vikram Seth abbandona un’avviata carriera da economista per lanciarsi in un’impresa di 590 sonetti in rima ispirati a San Francisco, alla guerra fredda e a una vita intrisa di poesia. La sfida era dichiarata, sfrontata e ambiziosa fin dall’inizio. Raccontare in versi, in una lunga ballata, l’attualità del mondo così come lo vediamo con la sua moltitudine di voci, di simboli, di idee per aria, di connessioni che non uniscono e di parole che non dicono. Golden Gate doveva essere un romanzo in forma di poema, chissà, forse un omaggio senza timori alla gloriosa epopea di Walt Whitman, oltre che al dichiarato colpo di fulmine con Puškin. Con l’intenzione di abbracciare il possibile e l’impossibile, partendo dalle origini primordiali, quando Vikram Seth dice: “Cos’è in fondo l’origine del mondo? Un tic-tac nel silenzio dello spazio”. In corso d’opera, sospinto dall’innegabile ricchezza di un vocabolario e da una spiccata sensibilità ritmica, Golden Gate deve aver proprio invertito la sua polarità. Prendendo la mano a Vikram Seth è diventato qualcosa di molto simile a un poema in forma di romanzo perché la frammentazione delle sue stanze ha riflettuto, più che interpretato, il caos del nostro mondo, dove morale e legge spesso non combaciano (“Ci sono delle occasioni in cui morale e legge civile sono in conflitto. Anche se l’unica legge ufficiale è quella del diritto. Se rispondiamo alla nostra coscienza e non vogliamo distruzione e violenza e né che degli ordigni intelligenti colpiscano degli umani innocenti, ci vuole una chiosa alla citazione. Una corretta analisi filologica deve comprendere l’intera logica del testo”), la guerra è onnipresente (“La nostra nazione ha creduto a lungo che la guerra era uno sport”) e il dubbio è l’unica certezza (“Non c’è salvezza e non c’è vittoria. Non c’è difesa, non c’è alcun confine. Non ci sono limiti, non c’è storia”). Prosa o poesia, l’originalità e la temerarietà di Vikram Seth non sono in discussione perché Golden Gate è una rotta trafficata e rocambolesca attorno ad un’idea cosmopolita, un clamoroso laboratorio linguistico, che purtroppo è rimasto tale. Dovessero contare più le premesse dei risultati concreti, Golden Gate vincerebbe ancora oggi il premio Pulitzer. Essendo rimasto un caso, eclatante ma pur sempre un caso, rimane sospeso e incompiuto tra la certezza di una frattura epocale (“Noi/Loro. La scoraggiante visione che sottintende questa ribellione. L’ipocrita superficialità non estirperà il seme del peccato, e non guarirà questo caos dannato”) e una sincera curiosità che Vikram Seth, con una domanda sacrosanta (e rivelatoria), sintetizza così: “Se il desiderio lacera il tuo cuore, come può quello che hai letto qua e là, cose risalenti a secoli fa, convincerti che è fasullo l’amore che provi, e che questa tiritera di dogmi, cavalli e carri, è vera?”. Così viviamo oggi, e anche se nell’infinita ballata di Vikram Seth la domanda rimarrà senza risposta, la sfida è vinta, ai punti.
giovedì 23 novembre 2017
Geoff Dyer

mercoledì 22 novembre 2017
Jean Echenoz

lunedì 20 novembre 2017
J. G. Ballard
Cocaine
Nights è un romanzo importante e, per certi versi
indispensabile, perché è l’unico, negli ultimi anni, ad esplorare
in modo così esplicito ed incisivo il nostro futuro. La fantascienza
non c’entra nulla: anche se non si sono indicazioni specifiche,
Cocaine Nights è proiettato in un tempo che vede l’oggi
come passato prossimo e in un luogo, la spagnola Costa del Sol, che
per la sua vicinanza a Gibilterra, vale soprattutto quale paesaggio
metaforico, un’ambigua zona di confine. L’atmosfera generale, la
zuppa in cui J. G. Ballard intinge le sue intuizioni, è quella di
una comunità che dispone di quantità illimitate di tempo libero,
prospettiva che più di un sociologo si sentirebbe di controfirmare:
la televisione non è più sufficiente, la noia è sempre in agguato,
la voglia di vivere (e quindi: di consumare) potrebbe venir meno con
danni irrimediabili all’industria dell’intrattenimento, del
turismo, dello spettacolo, della pubblicità. Non ci sono in gioco
soltanto incalcolabili interessi economici, ma anche tutta la
complessa rete di rapporti, valori, tradizioni e convenzioni,
idiosincrasie e contraddizioni che fin qui hanno retto quelle
strutture (politiche, industriali, commerciali) che nessuna
rivoluzione è riuscita né a capire né, di conseguenza, a
rovesciare. Nelle propaggini di Cocaine Nights J. G. Ballard
scopre una sorta di accelerazione di questa decadenza, un impulso
all’autodistruzione per tedio che ha nella bucolica enclave di
villaggi turistici e campi da tennis,della Costa del Sol ha il suo
humus ideale. La risposta, per mantenere lo status quo, è
paradossale, ma comprensibile: trasgressione. Sesso, droga, soldi
sono gli stimoli adatti e cominciano a incuriosire sempre di più la
popolazione della Costa del Sol mentre le inevitabili
controindicazioni (microdelinquenza, tossicodipendenza, truffe e
derivati) diventano altrettante fonti di guadagno: sistemi di
sorveglianza, cliniche private, casinò, riciclo di denaro. Cocaine
Nights è molto lucido nel rivelare una perversa idea di
ingegneria sociale: il suo caos stratificato, il suo progettare una
vitalità con l’ambiguo supporto di vandalismi, furti, danni e
aggressioni, cresce dove “il crimine e la creatività vanno di pari
passo, e l’hanno sempre fatto. Maggior è il senso del crimine,
maggiore è la coscienza civica e più ricca la civiltà. Non c’è
nient’altro che faccia da collante in una comunità”. Una
percezione confermata altrimenti anche da Don DeLillo: “Considero
la violenza contemporanea una specie di risposta sardonica alla
promessa di appagamento consumistico. Uomini che non possono uscire
dalle loro minuscole stanze e devono organizzare la loro disperazione
e la loro solitudine, devono cercare un destino per disperazione e
solitudine e spesso finiscono per farlo con mezzi violenti. Vedo
questa disperazione nei pacchetti dai colori sgargianti e nella
felicità del consumatore e in tutte le promesse che la vita del
consumo ci fa giorno per giorno e minuto per minuto ovunque andiamo”.
Capace di trasformare un’esile trama noir in un’acuta
osservazione del presente, dove tra crimine e vittime le distanze si
sono affievolite, con Cocaine Nights J. G. Ballard tocca molti
nervi scoperti e, fin dall’incipit (strepitoso) ricorda che quella
frontiera l’abbiamo passata tanto tempo fa.
venerdì 17 novembre 2017
Derek Raymond

giovedì 16 novembre 2017
Ricardo Piglia
Partendo
dalla figura del lettore vista dentro romanzi che ormai sono qualcosa
più che classici, Ricardo Piglia tratteggia una sorta di manuale di
autodifesa del lettore e insieme un identikit di questa particolare
figura letteraria senza la quale non vive nemmeno il suo
corrispettivo più altisonante, lo scrittore, dato che “la
lettura costituisce uno spazio tra l’immaginario e il reale, fa
venir meno la classica opposizione binaria tra illusione e realtà.
Non c’è, al tempo stesso, niente di più reale e di più illusorio
dell'atto di leggere. Molte volte il punto d'intersezione tra il
sogno e la veglia, tra la vita e la morte, tra il reale e l’illusione
è rappresentato dall'atto di leggere”. Visto che tra le tanti
immagini del lettore che questo bel libro di Ricardo Piglia elenca
nelle sue forbitissime pagine c’è anche quella di “colui che
legge male, distorce, percepisce in modo confuso”, forse va la pena
di cominciare a parlarne leggendo dal fondo. Tanto non è un
thriller, non si svela la trama, non si brucia la sorpresa ed è
proprio nelle battute conclusive che, citato in due-righe-due, Josif
Brodskij spiega il senso ultimo del libro di Ricardo Piglia quando
dice: “In poesia come in qualsiasi altra forma di discorso, il
destinatario conta quanto colui che parla”. Il lettore, questo
essere misterioso che “tende a essere anonimo e invisibile”, che
non legge un libro, ma è “smarrito in una rete di segni”, che
vive in un mondo parallelo senza aver rinunciato all'idea che prima o
poi “quel mondo irrompa nella realtà”, sempre convinto, dai
libri e dalle sue letture, che “ciò che possiamo immaginare esiste
sempre, in un'altra scala, in un altro tempo, nitido e lontano, come
in un sogno”. Degli scrittori si sa tutto, dei lettori nessuno si
ricorda mai e allora Riccardo Piglia racconta la bellissima
solitudine grazie alla quale non sono, e non siamo, mai soli perché
“chi legge è protetto da qualsiasi turbamento, isolato dal reale”
e può permettersi altre lenti e altre finestre con cui guardare il
mondo perché “la lettura agisce come un modello generale di
costruzione del senso” ed è sempre salvifica, anche quando è
triste, malinconica, dolorosa. Le prove per rispondere a tutte queste
tesi Ricardo Piglia le va a cercare, come un qualsiasi lettore, in
quei libri dove il lettore trova “un nome e una storia” e allora
si comincia con Borges e da Buenos Aires si arriva a Dublino, da
Joyce si scivola verso Cervantes, Kafka, Tolstoj e persino un Che
Guevara che legge Jack London. Ogni lettore nella finzione diventa un
modello di lettura o un piccolo tassello di un volto che va
costruendosi pagina dopo pagina, insieme ad una particolarissima
bibliografia e ad un'idea di lettura che “si oppone a un altro
universo di senso. A un’altra maniera di costruire il senso, per
meglio dire. Abitualmente è un aspetto del mondo che il soggetto
accantona, un mondo parallelo. E l’atto di leggere, di possedere un
libro, è solito articolare tale passaggio. C’è qualcosa di magico
nelle parole, come se invocassero un mondo o lo annullassero”.
Serviva qualcuno che ricordasse che la lettura è una magia e un
viatico più per i sogni che per i sonni, perché in fondo in fondo
il lettore “è colui che arriva tardi, è l'ultimo cavaliere
errante”. Da questo libro, in poi, un po’ meno sconosciuto, un
po’ più fortunato.
mercoledì 15 novembre 2017
Árni Thórarinsson

giovedì 9 novembre 2017
Eshkol Nevo
Mentre la
Francia vince i campionati mondiali di calcio del 1998 con una
squadra cosmopolita e variopinta, quattro amici decidono, un po’
per gioco, un po’ per sfida, di cominciare una bizzarra partita con
il destino. In foglietti piegati e riposti con cura, infilano i loro
desideri più profondi che vorrebbero vedere realizzati entro e non
oltre un termine ben preciso, ovvero la successiva edizione dei
mondiali. Se l’idea parte nella condivisione della certezza che
“noi tutti sentiamo di appartenere a qualcosa solo quando siamo
insieme”, l’aver fissato una destinazione nella realtà implica
soltanto una precisione sulla carta dei calendari, ipotetica almeno
quanto la natura dei desideri. La scadenza, ogni quattro anni, è uno
spartiacque temporale, un confine invisibile e ideale tra speranze e
promesse, tra l’evoluzione delle personalità, l’incidenza
dell’età, degli imprevisti e delle probabilità. Quello che resta
è il dato concreto, e inalienabile, con cui è partito l’azzardo:
ormai scritti, i desideri resteranno lì, incidendo una linea
assoluta che rende il gioco inventato dagli amici davanti alla
televisione un rischio permanente, e inquietante. Zinedine Zidane
alza la coppa del mondo e arrivederci a quattro anni dopo. Eshkol
Nevo manovra con una certa abilità l’incrocio tra le personalità
di Ofir, Churchill, Amichai e Yuval (a cui vanno aggiunte Ilana,
Maria e Yaar) finché i desideri si realizzano, ma con una
“simmetria” (che è poi quella del titolo) sfasata rispetto alle
intenzioni, secondo trame imprevedibili, segnando la vita, i legami e
le storie degli amici. D’altra parte c’è una precisione
divinatoria se un gioco nato per caso e per scherzo davanti alla
televisione diventa un rituale rivelatorio, a cui i quattro amici
torneranno spesso a fare riferimento. Come se gli servisse a
comprendere che i desideri erano tutti giusti, ma al posto sbagliato,
mentre le tracce delle loro vite venivano segnate, anno dopo anno, da
quella che Eshkol Nevo chiama “incostanza dei sentimenti”. Come
era facile intuire, la partita è persa fin dall’inizio. La
difficoltà di far coincidere i legami e i rapporti con i propri
desideri non è l’unica che devono affrontare i quattro amici. Si
devono destreggiare anche con le proprie famiglie, con una vita
quotidiana fatta di guerra e di violenza, con città evanescenti e
notti surreali. Si devono confrontare anche con le fragili
intersezioni di un’amicizia con l’altra, dove, come capita
regolarmente nella realtà, il tradimento, l’assuefazione, il
sospetto e la confusione prolificano in modo esponenziale. “Se è
tutto sbagliato da cima a fondo, che almeno si tratti di un errore
maestoso” scrive Eshkol Nevo e, senza forzare i toni, anzi
piuttosto con garbo, misura e discrezione, conduce il romanzo in
porto. Solo che sua “simmetria” più che geometrica deve essere
stata matematica. Il segnale che giunge è che, pur di giungere alla
stessa somma, quell’insieme, che è poi il “desiderio” più
importante, vale la pena scambiare i ruoli, magari in attesa dei
prossimi mondiali.
mercoledì 8 novembre 2017
Paulina Chiziane

lunedì 6 novembre 2017
Omar Cabezas
E’
giovanissimo, Omar Cabezas, quando aderisce alla causa sandinista e
ha poco più di vent’anni quando raggiunge la guerriglia sulle
montagne del Nicaragua. Un passaggio irto di ostacoli e difficoltà
per uno studente universitario, che si rende necessario perché la
montagna insegna, allena, addestra. Il suo è un diario tenuto con un
linguaggio “fresco, divertente, diretto e irriverente”, come ha
scritto Carlos Fuentes, e comunque magnetico, come d’altra parte
l’ha definito Julio Cortázar. Due presentazioni di prestigio che
rendono bene il senso ultimo e più profondo di Fuoco dalla
montagna. La questione ideologica, la rivoluzione sandinista in
sé, resta sullo sfondo anche se il movente è sempre chiaro e
ineluttabile. L’attenzione di Omar Cabezas porta in primo piano
quello che è, a tutti gli effetti, un romanzo di formazione. La
resistenza collettiva e la maturazione personale cominciano proprio
dagli stenti quotidiani, dalla condivisione del dolore, della fatica,
della noia, del freddo e della solitudine. La montagna è impervia, è
un rifugio, ma è anche una trappola e l’azione è sempre
sottolineata dalle difficoltà, dagli sforzi estremi per supplire
alle necessità minime e indispensabili di ogni giorno. Mangiano
carne di scimmia, ma più spesso il menù è limitato a un po’ di
latte in polvere. Sopportano le sveglie all’alba, gli esercizi nel
fango, le lunghe marce, le malattie, la cupa tristezza per la perdita
di un compagno, gli allarmi, le emergenze e le ritirate. Più di
tutto la presenza incombente ed esigente della montagna. Lassù “la
pelle si fece dura, lo sguardo si fece duro, il palato si fece duro.
La vista si fece più acuta, l’olfatto iniziò a perfezionarsi, i
riflessi sempre migliori: ci muovevamo come animali. I nostri
ragionamenti si fecero sempre più duri, man mano che l’udito si
acuiva. Era come se ci rivestissimo della stessa durezza del bosco,
della durezza degli animali”. La metamorfosi porta Omar Cabezas a
scoprire che “il fuoco, su in montagna, è un’arte” e le sue
descrizioni ricordano da vicino Preparare un fuoco, il
classico di Jack London: “Man mano che prende il fuoco, la fiamma
emerge là dove c’era solo bagnato, il fuoco nasce là dove c’era
solo umidità, e prende forza, si avvicina ai rami più grandi,
accende i rametti poi quelli più grandi e quelli più grandi ancora,
finché non si accende del tutto. Quasi non ci si crede che possa
prendere un fuoco là in mezzo. Ti asciughi, ti scaldi: che possa
apparire del fuoco in mezzo a tanta umidità, in mezzo a tanta
pioggia, nel bel mezzo di una selva così umida, è una cosa
inimmaginabile”. Non di meno, il ritorno a valle, in città, dove
lo chiama la sua missione, è altrettanto pieno di stupore. Qualcosa
è rimasto incastrato nella montagna, il tempo è schizzato verso il
futuro, Omar Cabezas lo intuisce quando si ritrova a casa: “Mi
sembrava che quell’anno di assenza fosse durato un secondo appena.
Non sapevo se l’avevo vissuto davvero, se ero stato davvero su in
montagna. Di sicuro erano passati molti giorni, uno dopo l’altro,
prima di arrivare lì, ma non ero sicuro di essermene andato davvero.
Ero su una macchina clandestina, con due compagni armati e quando
passammo di fronte alla casa e la vidi, accidenti! Fu un colpo
incredibile, mi pareva tutto irreale. Ogni tanto ci convinciamo che
il mondo evolve con noi; ci convinciamo che sia il mondo a farci
evolvere; a volte abbiamo l’impressione che, se non ci sei tu,
rimane tutto immobile”. Una bella testimonianza.
domenica 5 novembre 2017
Ian McEwan

martedì 31 ottobre 2017
Derek Raymond
Interni
ed esterni di una famiglia aristocratica inglese negli anni sessanta:
una decadenza inarrestabile che si trascina in un folle e amaro
vortice di solitudine, disperazione e distruzione: anche se non è
uno degli episodi della Factory, la saga per cui è diventato
giustamente famoso, Atti privati in luoghi pubblici è a pieno
titolo un romanzo degno della visione narrativa di Derek Raymond, che
qui si applica a mondi che ha conosciuto in prima persona, ovvero
quelli dell’aristocrazia e della pornografia. L’associazione
autobiografica deve aver avuto un peso specifico non relativo, vista
l’acidità con cui viene trasmessa dallo stesso Derek Raymond.
Tutto si svolge all’ombra della Swingin’ London, un momento che,
messi da parte miti e leggende, viene inquadrato così: “L’ottanta
per cento della popolazione britannica stava mollo nell'ignoranza e
nella miseria, nell’infelicità, nell’anno di grazia 1967,
semplicemente perché il denaro non arrivava nelle loro tasche, o
perché non avevano il tempo di fare buon uso di quello che
guadagnavano, o le due cose insieme”. E’ quello il contesto in
cui un manipolo di rampolli di buonissima famiglia si lascia andare
alle deviazioni rispetto all’ipocrisia imperante, senza accorgersi
di essere finiti nell’inevitabile cul de sac. Viper e Mendip si
sono scelti un ramo aziendale insolito e piuttosto torbido (tengono
insieme una serie di sexy shop) e, se non altro, tutto sommato almeno
un senso degli affari l’hanno mantenuto. Le sorelle (e loro cugine)
Lydia e Beatrice invece hanno manifestato tutto il loro dissenso
verso le tradizioni, i riti e i codici della famiglia. Lydia si è
dedicata alla più completa dissoluzione del corpo e della mente (“La
noia, se ne rendeva conto, in lei occupava il posto di tutte le
passioni. La noia era al contempo rabbia, gioia, amore, piacere dei
sensi, in lei”), passando dai film pornografici alla prostituzione;
Beatrice si è rinchiusa in soffitta a studiare Marx ed Engels, sommo
sfregio all’aristocrazia famigliare, insieme al fatto (ancora più
grave) che si degna di pranzare e cenare soltanto con la servitù.
Una serie di eventi li porteranno tutti quanti (una bella compagnia,
tutto sommato) nella ricca villa di famiglia. Nello scenario della
bucolica campagna inglese, tra scenate irripetibili (“L’avidità
era il loro comune terreno d'intesa. L’arroganza il loro comune
linguaggio”), clamorosi colpi di scena e un intero catalogo di
follie si consumerà, per intero, il dramma di un declino squallido,
travolgente e spietato. Gli Atti privati in luoghi pubblici sono
fotografati in modo molto lucido e convincente da Derek Raymond.
Domina, incontrastato, il suo tratto spigoloso, tagliente che non
concede nulla ai suoi personaggi se non una lunga, cupa e atroce
discesa negli inferi che si sono creati. Nessun luogo comune, nessuna
pietà e nessun effetto speciale: a Derek Raymond basta e avanza la
sua geniale idiosincrasia verso il genere umano per arrivare fino in
fondo. Senza scampo, senza via d’uscita.
lunedì 30 ottobre 2017
J. G. Ballard

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